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stampa questa pagina [versione printer friendly] Il rovescio della fiaba Tradizione e innovazione nell’opera di Gianni Rodari
Per lo scrittore di Favole al telefono la fiaba diventava utile stumento dell'utopia, non della conservazione. Ma allo stesso tempo, non riusciva a non sentire il fascino del mondo antico. Perché, malgrado applicazioni e interpretazioni, quel magico mondo ci parla da sempre. Anche quando ne usiamo un'immagine rovesciata, come accade, guarda caso, in uno specchio...
di Barbara Ronca b.ronca@yahoo.it
La fiaba popolare è, assieme al romanzo, il genere letterario che maggiormente ha contribuito a formare l’immagine culturale dell’Europa moderna. È in particolare nell’Ottocento che vengono curate le più importanti raccolte di fiabe del vecchio continente, e lo studio della loro lingua e struttura è parte integrante del processo romantico di formazione del concetto di identità nazionale. La vera anima popolare (il volkgeist cercato dagli Schlegel, da Novalis, dai Grimm) si rispecchia in questo genere letterario, che diviene così, nelle parole di Herder, «un tesoro per il poeta e per il difensore del proprio popolo»; la fiaba ha quindi racchiusa in sé una travolgente forza di rivoluzione sociale, quando non politica.
Quello della fiaba è un genere però, per così dire, sterile: proprio perché basato sulla tradizione folklorica e orale, può solo essere ascoltato e trascritto, certo non creato: una fiaba popolare smette di essere tale nel momento in cui non è più espressione della voce di un popolo ma di quella di un autore. Gianni Rodari (scrittore rivoluzionario del nostro Novecento che da subito si avvicina alle formule tipiche del racconto orale – esemplare in questo senso il ricorso ai dialetti, ai proverbi, la sperimentazione sul genere della filastrocca e, appunto, della fiaba) rende fecondo questo genere sterile; ne fa genere che si può creare, senza modificarne sostanzialmente le strutture linguistiche e stilistiche, ma rovesciandone, spesso, i contenuti; genere che influisce sull’attualità, sulla vita della gente comune, della cui voce, naturalmente, si nutre.
Fin dai suoi esordi come giornalista di partito (negli anni ’50 Rodari lavora per diversi periodici del PC) è forte l’impegno politico che l’autore riversa nelle sue opere destinate ai ragazzi. («Sono soprattutto le cose da dire – dice Argilli nella sua minuziosa biografia rodariana – ciò che allora contava per lui»); stilisticamente, invece, l’autore "tentenna", sperimentando la sua scrittura giorno per giorno, mescolando stili e generi letterari, non imponendosi canoni o regole. Non avendo ancora maturato una seria riflessione su cosa sia la letteratura ‘destinata ai bambini’, Rodari produce in questo periodo opere meno rifinite ma spesso socialmente molto più incisive di quelle che lo porteranno al successo negli anni ’60. Forse proprio per dar voce a questa passione civile, tra i tanti generi letterari in cui si cimenta, sviluppa una particolare predilezione per la fiaba: perché spiegare la società ai bambini richiede uno strumento che essi possano capire; e perché le sue fiabe, in un periodo di forte tensione morale e politica (come direttore del Pioniere Rodari fu anche scomunicato), possono affondare le radici nell’attualità e comunque vantare dei personaggi tipici delle vere märchen: definiti, senza sfumature; totalmente buoni o totalmente cattivi. Erano anni, come scrive Pino Boero (p.96), in cui ‘si poteva consegnare un messaggio di speranza solo attraverso posizioni politiche nette e precise (…) l’antagonista, il “cattivo” della letteratura giovanile tradizionale diventava il nemico di classe, il ricco, il padrone…. Per la prima volta in una fiaba ad essere crudele non è una strega, ma un ministro della guerra; il mondo del fantastico si popola di sirene di fabbriche, di pensionati e di palazzi di periferia, e i suoi eroi sono bambini i cui genitori fanno i fornai, gli spazzini, gli operai: eppure, rispetto alle fiabe dell’Ottocento, la sostanza non cambia. La fiaba torna alla sua originaria e fondamentale funzione di esaltare il ruolo degli umili e unificare tutto il popolo sotto un’unica bandiera culturale. Mantiene la sua struttura tipica (proppiana, direi) ma si colloca qui e ora, non in un passato mitico e atemporale.
È lo stesso Rodari, dopo aver letto le Fiabe italiane di Calvino pubblicate da Einaudi nel 56, a sottolineare la fondamentale importanza che questo genere letterario ha nella formazione di una coscienza nazionale: riflettendo sul fatto che le maggiori raccolte di fiabe europee furono realizzate nell’Ottocento, Rodari si chiede: «Perché invece la grande raccolta di Calvino è arrivata solo (…) dopo la seconda guerra mondiale?’ La risposta è semplice: ‘...l’autore di questo libro è il popolo italiano’, ed è stato possibile sentire la sua voce ‘soltanto in un momento di grande unità nazionale, come è stato subito dopo la guerra, quando il popolo italiano è diventato protagonista della sua storia.» (G. Rodari, I 5 libri, p. 717).
Il 1960 è per Rodari un momento fondamentale: entra a far parte della scuderia Einaudi, divenendone presto, insieme proprio a Calvino, la punta di diamante. Gli anni ‘60 sono per lui i più fecondi, letterariamente parlando: il suo pubblico si allarga, la sua fantasia si dispiega libera e raggiunge vaste fasce di popolazione prima precluse (cioè tutti quei ragazzi i cui genitori non leggevano giornali di partito). E sempre in questo periodo cresce il suo interesse per la fiaba, di cui scuote ridendo le fondamenta; e i cui personaggi, schemi, tic linguistici divengono strumento di una divertita rivoluzione – nelle Favole a rovescio della raccolta Filastrocche in cielo e in terra, ad esempio, «Biancaneve bastona sulla testa/ i nani della foresta,/ la Bella Addormentata non si addormenta/ il Principe sposa una brutta sorellastra…» – (p. 129).
Con Favole al telefono, del ’62, si ritorna in carreggiata, lo scherzo si acquieta: non è un caso che la brevissima prefazione del libro inizi con la formula classica c’era una volta…, che ne fa un racconto a cornice, come la raccolta di fiabe per eccellenza, le Mille e una Notte, o come Il Cunto de li cunti di Basile. Anche nelle Favole rodariane i demoni notturni vengono cacciati dal raccontare, ma la moderna Sherazade è il ragionier Bianchi, di Varese, rappresentante di commercio. La narrazione, il cui destinatario non è un crudele sovrano ma la bambina del ragioniere, che non dorme senza aver ascoltato una storia, avviene per via tecnologica, ipermoderna: cioè, attraverso il telefono; ep»pure, le storie narrate sono tanto belline, dice Rodari, che anche le centraliniste, ogni sera, smettono di lavorare per ascoltarle: il fascino della fiaba è davvero senza tempo.
Ma è pur sempre una fiaba moderna, mediata dall’ironia, quella di questa raccolta di racconti: essa si fa più giocosa (ci sono vecchine che contano gli starnuti, piovono confetti dal cielo, sorgono palazzi di gelato) ed entra nel quotidiano del lettore: il centro dell’azione non è più un reame lontano lontano, ma Busto Arsizio o Piombino; l’oggetto magico è il bastone di un vecchio, il viaggio di formazione dell’eroe è quello surreale (molto deve Rodari al surrealismo) di Giovannino Perdigiorno che cammina e cammina per andare a toccare il naso del re.
Alcuni racconti (I capelli del gigante, La strada che non andava in nessun posto, Il re che doveva morire) riprendono con precisione lo schema tipico di alcune fiabe, trasportandolo su un terreno più conosciuto e quotidiano, ma mantenendo forti i temi del magico, del miracoloso; altre, come la divertente A sbagliare le storie, divengono semplice calembour linguistico, pretesto per ridere: in questo dialogo tra nonno e nipotina, infatti, lui narra una fiaba sbagliandone così grossolanamente la trama («C’era una volta una bambina che si chiamava Cappuccetto Giallo» «No, rosso!» «Ah, sì, Cappuccetto Rosso. La sua mamma la chiamò e le disse: senti, Cappuccetto Verde…» «ma no, Rosso!» «Ah, sì, Rosso. Vai dalla zia Diomira a portarle questa buccia di patata») che la bimba rinuncia alla narrazione. «E il nonno – conclude sorridendo Rodari – tornò a leggere il suo giornale».
Dopo il 1969 la salute e lo stile di Rodari vanno peggiorando. La vena creativa che aveva raggiunto lo zenit negli anni 60 va affievolendosi. È mutato il paese, politicamente e socialmente, e con lui lo scrittore: «Rodari – dice ancora Argilli - non parte più lancia in resta». Forse per questo il rapporto con la fiaba si allenta. Nel '70, infatti, lo scrittore disse: «Le fiabe sono alleate dell’utopia, non della conservazione. E perciò (…) noi le difendiamo: perché crediamo nel valore educativo dell’utopia, passaggio obbligato dall’accettazione passiva del mondo alla capacità di criticarlo, all’impegno per trasformarlo. Venuta meno la possibilità di quella trasformazione, anche la fiaba perde quindi il suo ruolo, il suo valore». Lamberto, barone protagonista del romanzo che da lui prende il titolo, nasce in questo momento di cedimento fisico, di nostalgia per il passato. In qualche modo questo libro è quasi un sunto dell’inesausta attività di Rodari di rottura verso i generi canonizzati.
Con lui lo scrittore rompe definitivamente le regole della fiaba, a partire dall’irrinunciabile incipit c’era una volta…; qui addirittura l’eroe c’è due volte, e percorre a ritroso il passaggio obbligato del protagonista del racconto fiabesco: egli infatti è di solito un ragazzo, un giovanetto o una ragazza che, dopo molte avventure, diventano un principe o una principessa, si sposano e danno un gran pranzo. Questa favola, invece, comincia con un vecchio di novantaquattro anni che alla fine, dopo molte avventure, diventa un ragazzino di tredici anni’; si affaccia alla vita, quindi, per la seconda volta.
Il romanzo, ambientato nelle regioni dell’infanzia dell’autore (è la prima volta che Rodari s’incaponisce perché i luoghi natii siano lo sfondo di una avventura da lui narrata) appare subito poco adatto ad un pubblico di bambini, e pare probabile che l’autore l’abbia scritto più per se stesso che per i ragazzi.
Lamberto rappresenta la speranza di uno scrittore malato e stanco, che sempre ha usato la fiaba per narrare la realtà, di non morire, di acquistare forza dalla narrazione di una rinascita miracolosa come Lamberto la acquista dal sentir ripetere il suo nome. Se le fiabe sono, come dicevamo, le alleate dell’utopia, il sogno dell’esserci due volte, di tornare indietro alla giovinezza è l’ultimo regalo che questo genere fa ad un autore che lo ha sempre omaggiato.
Rodari morirà il 14 aprile 1980, a soli sessant’anni. Il suo non è un lieto fine come quello delle fiabe, e la sua morte inaspettata riempie di sgomento i suoi amici e i tantissimi ammiratori, grandi e piccoli; sembrerà, col senno di poi, quasi profetico l’ultimo paragrafo di C’era due volte il Barone Lamberto, ma forse a rileggerlo vi si troverà coraggio e consolazione: ‘Non tutti saranno soddisfatti della conclusione della storia.’ recita infatti il brano, che ottimisticamente prosegue: ‘A questo però c’è rimedio. Ogni lettore scontento del finale, può cambiarlo a suo piacimento, aggiungendo al libro un capitolo o due. O anche tredici. Mai lasciarsi spaventare dalla parola FINE’.
Anche qui, come in ogni fiaba che si rispetti, Rodari ci lascia una morale: quando si hanno le fiabe come alleati, sembra dirci, si può diventare capaci di non temere nemmeno la morte.
Approfondimenti:
http://www.giannirodari.it/ http://www.sbagliandosinventa.it/rodari_index.php http://www.indire.it/Rodari/
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