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stampa questa pagina [versione printer friendly] La tradizione e i simboli
Le fiabe raccontano un percorso spirituale che gli antichi hanno in qualche modo uniformato attraverso l'uso consapevole di elementi simbolici, spesso comuni a più popoli. Ne abbiamo parlato con Gianfranco Ersoch, che allo studio unisce una passione feconda...
di Leonardo Leonardi leo.leonardi@gmail.com
Il tempo delle fiabe sembra ormai lontano. Non il tempo di principi e maghi, casette nel bosco e creature fatate (quello è decisamente lontano), ma proprio il tempo della fiaba come forma letteraria, come racconto per addormentare i bambini, per esorcizzare le loro paure e quelle dei grandi, il tempo della fiaba come tradizione orale e momento di raccolta intorno a un'unica voce. In un periodo in cui nemmeno la Disney fa più appello alla tradizione popolare per produrre i suoi film, ora che il concetto di fiaba si fonde e si confonde con altri simili (favola, racconto, mito, parabola) e i suoi schemi più classici vengono presi a prestito da altre forme del narrare, vogliamo provare a fare un percorso a ritroso: ricercare le origini simboliche e allegoriche della fiaba. Perché alcuni modelli narrativi popolari, alcune storie e personaggi sono pressoché uguali nel folklore indo-europeo, in quello est-asiatico e in quello africano? Quali sono le verità che nella forma del racconto orale vengono rappresentate e rese accessibili anche ai bambini?
Ne parliamo oggi con Gianfranco Ersoch, docente si simbolismo e di storia dell'ermetismo presso l'Accademia Tiberina di Roma, presidente dell'associazione Te Roma Sequor e socio fondatore e docente dell'Associazione Simmetria. Insieme a lui, cultore delle tradizioni arcaiche e massimo esperto dei miti e delle leggende popolari, cerchiamo di analizzare la valenza simbolica che caratterizza le fiabe, intese come riduzioni popolari di miti astrologici e religiosi.
Le popolazioni primordiali hanno rappresentato nel racconto mitico una realtà pura, incontaminata e paradisiaca a cui tendono a ritornare, attraverso una serie di passaggi e trasformazioni, conflitti, abbandoni e ritrovamenti che simboleggiano un percorso interiore. Questo è un tratto comune che ritroviamo in quasi tutte le culture. Ci sono dunque, e quali possono essere, origini comuni delle tradizioni popolari in culture estremamente lontane tra loro?
Non tutte le fiabe hanno questa valenza simbolica. Questo riguarda solo le fiabe di Magia, quelle che in inglese si chiamano Fairy Tales, caratterizzate da un intervento magico quasi sempre necessario allo sviluppo della storia e al conseguimento di un successo finale. Sono, peraltro, le più suggestive, come Cenerentola o Biancaneve. Gli studi di etnologia e antropologia culturale hanno messo in evidenza come queste fiabe, nella loro struttura, siano universali: noi possiamo trovare una 'Cenerentola' tra i Pellerossa, i Maori, le popolazioni Uralo-altaiche e così via, e ci si chiede allora il motivo di questa universalità. E' una questione di diffusione? Ma che una fiaba mantenga inalterata la sua struttura attraverso un processo di diffusione che dura millenni e che coinvolge l'intero pianeta, attraversando culture e costumi completamente diversi è quantomeno singolare. Nel panorama delle diverse spiegazioni a questo fenomeno, le due tesi più diffuse sono quelle di un folklorista russo, Vladimir Propp, e uno storico delle religioni americano, Joseph Campbell; indipendentemente l'uno dall'altro e in momenti diversi, partendo anche da formazioni culturali differenti, propongono due spiegazioni oggi ritenute entrambe molto valide. Propp parte dalla sua impostazione legata al materialismo storico, e inscrive questo comune sviluppo dei folklori locali in un discorso di socialità: l'uomo è passato attraverso le stesse strutture sociali, e tale universalità della struttura spiega l'universalità della tradizione. Se però le tradizioni nascono in seno a una qualsivoglia società di pescatori e raccoglitori, nel momento del passaggio a stadi più avanzati (fino alla fase industriali), che senso ha questo tenace attaccamento alla fiaba, alla tradizione popolare e alla leggenda? Diverso è il discorso di Campbell, il cui modello di riferimento è la psicanalisi junghiana: le strutture presenti nella mente umana e nell'inconscio collettivo sono al di là del tempo e dello spazio, e pertanto sostanzialmente indifferenti ai cambiamenti sociali e storici a cui le popolazioni vanno incontro.
Al di là di queste due tesi principali, esistono interpretazioni diverse, e sappiamo che alcune sono strettamente legate al rapporto con la religione. Ne vogliamo citare alcune che siano rappresentative?
Alle teorie già esposte si aggiungono quelle di alcuni storici delle religioni come Mircea Eliade o Ananda Kentish Coomaraswamy, in cui la spiegazione psicologica a sua volta ne vela un'altra di tipo spirituale, con i due piani che corrono parallelamente.
L’ipotesi dei due piani che corrono parallelamente ci restituisce l’immagine di una separazione tra piano psicologico e piano spirituale. Come si incontrano?
Io ho trovato una spiegazione molto efficiente in Viktor Frankl, allievo di Freud e rettore dell'unversità di Vienna: lui sostenne l'ipotesi molto suggestiva secondo cui, come esiste un inconscio al di sotto della coscienza, un subconscio vero e proprio, esiste anche un inconscio al di sopra della coscienza, e lì c'è il contatto con la sfera divina dell'uomo, comunque la si voglia intendere. Quindi Frankl paragona il campo della mente a un piano e il campo dello spirito a un asse che attraversa il piano; il punto d'incontro, in una lettura bidimensionale, è il "cerchietto" formato dall'intersezione, se potessimo avere una lettura tridimensionale "vedremmo" l'asse spirituale. Qui si unisce la posizione di Coomaraswamy: se un mito ha un significato esistenziale, perenne, è chiaro che non cessa mai la sua attualità, che ne siamo coscienti o che ciò avvenga al di sotto, o al di sopra, della nostra coscienza. E ciò giustifica anche la sua autodifesa, la sua resistenza a tutte le trasformazioni che sono avvenute nei millenni: se è vero, come sostengono gli antropologi, che alcuni miti hanno un'origine risalente a 40.000 anni fa, il mantenere la struttura sostanzialmente invariata significa che qualcuno 'dentro' di noi ha un messaggio forte da trasmettere, e forse siamo noi ad essere troppo 'duri' da recepirlo.
È per questo che, con l'avvento della civiltà industriale (e non prima), si è sentito il bisogno, come nel caso dei Fratelli Grimm, di scrivere le fiabe per fissarle, per evitare che si perdessero?
Sì, la sensazione era che la tradizione andasse lentamente sbiadendo, nella memoria collettiva. E la nostra società occidentale è la prima che riesce a distruggere questo immenso bagaglio culturale, principalmente a causa di cartoni animati giapponesi e videogiochi, che peraltro stanno portando avanti la stessa opera anche nei confronti di una millenaria tradizione folklorica dell'Estremo Oriente. Il caso dei Fratelli Grimm, come del resto Calvino in Italia, è emblematico: quello dei Grimm è stato il primo tentativo di fare un lavoro filologico nei confronti della fiaba popolare. Significativo è, in questo senso, anche il lavoro di Andersen, che diversamente dai Grimm è un autore di fiabe, o di Perrault, che raccoglie le fiabe popolari rimaneggiandole in grande misura: queste operazioni sono sintomo di una necessità che, dalla fine del XVIII secolo, comincia a farsi sentire nella società europea, ovvero il bisogno di salvare la tradizione popolare dall’oblio in cui sta scivolando.
Abbiano accennato alla fiaba come riduzione del mito astrologico-religioso. In questa la figura dell’eroe è sempre dipinta senza sfumature, come del resto quelle dei suoi alleati o antagonisti: i personaggi della fiaba sono buoni o cattivi, non c’è via di mezzo né complessità psicologica. E’ qui che compare il conflitto tra luce e ombra? E, in questa chiave, chi è l’eroe?
L’eroe è il Sole. E’ una rappresentazione solare, e il ciclo solare è il ciclo della fiaba. Lo stesso sole, nel mito, è un significato, non un significante. Quando il sole comincia a morire lentamente, in autunno, il mondo cade nell’oscurità. L’eroe-sole affronta la sua caduta, fino ad arrivare al momento più buio, in cui riceve dei doni che gli permettono di tornare, altrettanto lentamente, alla vita. La fiaba parte sempre da una disgrazia iniziale, gli eventi precipitano fino al momento più oscuro per il protagonista. Da qui, tramite un aiuto, un dono, un alleato, comincia la risalita dell’eroe verso il suo successo. La morte-rinascita dell’eroe sole è particolarmente evidente in Biancaneve, se vogliamo. Queste favole sono ciò che resta di antichi miti in cui la religione è finita, si è trasformata; il mito dunque si trasforma in fiaba per uatodifendersi, per riuscire a conservare se stesso. Con una battuta, vorrei dire che la fiaba è un ‘mito in pensione’: quando i miti vanno in pensione si trasformano in fiaba.
Possiamo dire che questo allontanamento della luce è rappresentato molto spesso, nella fiaba, dal viaggio, dall’esilio, dall’allontanamento dell’eroe? Spesso i protagonisti vengono scacciati, costretti a fuggire, rapiti o altro…
Certo, è la nostra condizione esistenziale: noi non siamo ciò che vorremmo essere, ed è a questo che tendiamo costantemente. Passiamo attraverso vari processi di maturazione — fisica, psicologica e poi spirituale, o comunque interiore — e solo alla fine, come ‘premio’ per aver compiuto questo percorso, possiamo arrivare al successo nella nostra avventura, come l’eroe fiabesco.
In questo passaggio si colloca anche la figura dell’aiutante, del maestro, della fata o di chiunque altro, comparendo come un deus ex machina, aiuti l’eroe a raggiungere il suo traguardo. Non è un caso che sia solo questo il momento della sua comparsa, è giusto?
Naturalmente il deus ex machina compare per aiutare il protagonista solo quando lui (o lei) è pronto a riceverlo, cioè quando il suo percorso di maturazione è già avanzato: l’aiutante rappresenta la consapevolezza, la saggezza acquisita dall’eroe, e in generale le figure amiche, nella fiaba, rappresentano quelle nostre qualità che riusciamo a riconoscere e portare alla luce nel momento del bisogno più estremo. Il viaggio è sempre compiuto nel posto più lontano: dentro di sé. Fino al compimento di quel viaggio, noi (rappresentati dall’eroe) non abbiamo i mezzi (che, nella fiaba, sono gli alleati e i loro doni magici) per la nostra riuscita.
A questa crescita dell’eroe, coronata dal successo finale, fa da contrappunto la fine, spesso tragica e violenta, dell’antagonista. Possiamo soffermarci su questo aspetto?
Noi siamo abituati, in quest’epoca, a fiabe molto edulcorate, ma la tradizione classica del racconto popolare esige che il ‘cattivo’, alla fine, non solo paghi per la sua malvagità, ma lo faccia anche in modo estremamente violento. Questa è una violenza funzionale non solo (e non tanto) nell’economia della storia fiabesca, ma soprattutto nel suo ruolo educativo: il bambino si aspetta che il cattivo faccia una certa fine — e personalmente non ho mai incontrato un bambino traumatizzato da una fiaba classica—; non dobbiamo dimenticare che quel personaggio condannato a quella fine violenta è la parte oscura dell’eroe, e quindi di noi stessi: spesso è un parente molto vicino, a volte è un sosia, un impostore o un alter ego (che addirittura, spesso, viene scambiato per l’eroe stesso), ma in tutte le fiabe si può ritrovare la vicinanza e la complementarità tra luce e ombra nella coppia eroe-antagonista.
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