Le migrazioni di Bruce Chatwin sono segnate da un'irrequietezza costante che diventa letteratura, arte del narrare. I suoi viaggi sono tesi alla ricerca dello straordinario, del particolare sublime di geografie che corrispondono a stati dell'animo. Ma lo scrittore inglese è anche un complesso di contraddizioni che gli forniscono l'alimento creativo...
di Francesca Pacini
Come ben sapete, ho viaggiato molto. Il che mi ha permesso di comprovare l’affermazione che il viaggio è più o meno illusorio, che non c’è nulla di nuovo sotto il sole, che tutto è una sola cosa e sempre la stessa, eccetera, ma anche, paradossalmente, che è infondata la sfiducia di trovare sorprese e cose nuove: il realtà il mondo è inesauribile.
Jorge Luis Borges
Pochi uomini hanno lasciato una traccia nella letteratura di viaggio moderna come quella di Bruce Chatwin, giornalista e scrittore inglese morto di Aids proprio mentre le Vie dei Canti, il suo libro sugli aborigeni australiani, raggiungeva le vette scintillanti del successo internazionale.
Ma Chatwin non era solo uno scrittore. Era un incantatore, un po’ come Merlino.
Un fanciullo mai diventato adulto, con grandi occhioni azzurri sgranati sul mondo, i capelli biondi, lo zaino in spalla. Vestiva sempre un po’ ricercato, come un dandy sornione in cui il gusto estetico si attarda allo stesso modo sia sulla scelta degli abiti che sulle architetture e i panorami che va scoprendo nei suoi viaggi infiniti.
Era un esteta, Chatwin. Un esteta innamorato del mondo.
E’ a lui che dobbiamo una nuova forma letteraria che mescola la cronaca di viaggio alla finzione usando alchemicamente antropologia, letteratura, sociologia, storia, archeologia, frammenti di esperienze personali e di altri.
Tutti questi elementi diventavano storie. Storie di cui si invaghiva e attraverso le quali a sua volta incantava il mondo. Poteva narrarle una sera, a cena, in una delle sue solite “trance” dialettiche in cui danzava come un derviscio sulle parole facendo ammutolire i presenti; o poteva scriverle sui famosi molesquines, i taccuini che oggi accompagnano ogni viaggiatore un po’ zingaro che, con una copia di In Patagonia nella valigia, si appresta a frugare fra popoli e terre.
Per Chawtin tacere era impossibile. Amava diventare il centro dell’attenzione, era uno che il pubblico lo conquistava a suon di storie.
Il narcisismo, immutato nel suo tratto infantile, era certamente carburante per il talento; eppure allo stesso tempo, dietro il massiccio scudo di egoismo in cui si proiettava al centro del mondo, era anche un uomo capace di captare la leggerezza e la densità del mondo, di attraversarlo con un senso fiabesco in cui l’osservazione diventava incanto, meraviglia.
C’è chi ha definito “chatwinesque” un certo modo di essere e fare. Un modo che affonda e sguazza nelle parole divertendosi, irritandosi, provocando, affabulando.
Per questo i suoi libri hanno conquistato il pubblico di tutto il mondo.
Oggi Chatwin è l’icona del pioniere letterato, del viaggiatore colto che combina il senso della sofisticazione con il movimento istintivo, selvaggio e incessante.
Hanno versato acqua sul fiore di questa immagine le sue ripetute interrogazioni sul nomadismo, tema che lo ha inseguito, quasi braccato, fino all’ultimo istante di vita.
Se i primi anni da gallerista alla Sotheby’s di Londra hanno raffinato il gusto della percezione visiva e l’amore per il collezionismo, il successivo periodo al Sunday come giornalista del supplemento domenicale ha sicuramente contribuito alla consapevolezza della scrittura come urgenza, come luogo vivente in cui l’autore trova sé stesso.
Difficile dire se Chatwin si sia mai identificato completamente con la figura di scrittore, lui che per tutta la vita aveva scansato gli schemi, spezzato le griglie, evaso ogni forma di abitudine.
"La casa è un posto dove appendere il capello", diceva.
E infatti il matrimonio con Elisabeth fu un percorso fra ostacoli, segnato dall'irrequietezza che ossessivamente lo incalzava per condurlo altrove. Gli umori uggiosi dell’Inghilterra non facevano brillare il sole interiore di Chatwin, che tornava a splendere solo nelle vastità dell’oceano, o nelle foreste asiatiche, illuminando le notti stellate dei deserti africani. “Le tombeau verte”, chiamava i panorami inglesi (ad eccezione di alcuni luoghi del Galles in cui ritrovava le sue tracce infantili; alcuni di questi paesaggi animeranno La collina nera, uno dei suoi romanzi).
Gli mancava l’aria, a casa con Elisabeth, e allora fuggiva via, pronto a scrivere un pezzo o a trovare materiale per i suoi studi. In seguito poi la chiamava, si davano appuntamento in qualche luogo del mondo, in India come in Sud-America, per proseguire insieme.
Viaggiatore infaticabile, Chatwin, costante solo nella sua inquietudine zingaresca. Sudan, Afganistan, Africa, Brasile, Natolia, Europa, Russia, Mauritania… E la Patagonia. Era il 1974.
Lì passò i quattro mesi che lo avrebbero forgiato come scrittore di viaggio, sebbene questa definizione sia limitante per un individuo che sconfinava, sempre. “La Terra del Fuoco era l’ultimo posto in cui l’uomo si fosse spinto a piedi nei suoi vagabondaggi. In un certo modo la Patagonia è il simbolo supremo dell’irrequietezza nei confronti della condizione umana”, disse a un amico.
Un tale “narratore senza radici”, come lo definisce Nicolas Shakespeare nella sua biografia, non poteva sganciarsi dalla rete invisibile che legava ogni angolo di quella terra estrema, remota, popolata, a quel tempo, solo da uomini eroici, solitari, lontani da ogni forma consueta del mondo.
Chawtin osserva, riflette, annota. Conosce persone che, ribattezzate, diventeranno le protagoniste del mosaico narrativo di In Patagonia, il libro che lo fece conoscere al mondo.
In Patagonia è “un viaggio simbolico che è una meditazione sull’irrequietezza e sull’esilio”. Stranamente il testo ha la stessa forma della vetrinetta di sua nonna, quella che da piccolo lo tratteneva a bocca aperta mostrando i suoi tesori, oggetti di ogni dimensione e luogo collezionati con rigore. Anche i suoi libri saranno raccolte. Raccolte di storie unite solo dalla presenza del viaggiatore, cioè di sé stesso.
Chatwin è un collezionista di paesaggi e di eventi minimi che riesce a catturare, ad abbellire con la sua fantasia gitana, restituendoli, rinnovati, al mondo.
Non a caso alcune volte le persone che si riconoscevano nei suoi libri si irritavano per l’esubero di innesti fantasiosi. Ma non sarebbe stato “chatwinesque”, altrimenti.
Con Chatwin non sai mai quando oltrepassi il valico tra realtà e finzione, tra cronaca e invenzione pura.
Era un demiurgo, Chawtin, che creava universi ruotando la sua penna sui famosi taccuini. Vedeva il mondo e lo ricreava secondo il suo mito, al quale agganciava le culture e i paesaggi incontrati.
Affascinato dall’archeologia, aveva provato a frequentare l’università ma il metodo accademico non aveva risolto il guizzo del genio, non era riuscito a disciplinarlo.
Chatwin invidiava il rigore di molti studiosi, e continuò a invidiarlo tutta la vita. Ma non poteva trattenersi troppo sui dettagli, sugli studi noiosi. Doveva muoversi, la sua mente ribelle si infastidiva aggirandosi sempre negli stessi luoghi.
La sua ansia di conoscere il mondo non attingeva dai libri ma dal mondo stesso, riserva di tesori da collezionare, proprio come aveva sua nonna con la vetrinetta.
L’estro si paga, però. Infatti Chawtin era perseguitato dai suoi fantasmi irrisolti, dalla “Bestia”, come la chiamva. Un’ombra personale che insieme al genio gli dava anche squilibrio.
Il viaggiatore cronico, l’uomo che un giorno se né andò in giro nudo per la campagna, lo sfidante della natura, il valicatore dei confini disseminati su questo pianeta, era anche un uomo fragilissimo, a volte insicuro.
Per questo il matrimonio con Elisabeth funzionò. Perché la distanza allontanava la Bestia che forse aveva a che fare con il calore di un focolare, riguardava l’intimità di un vero legame affettivo di cui aveva il terrore.
Il viaggio per lui era anche fuga, fuga da sé stesso e dalle proprie nevrosi. Ma fu così che si curò. E se da un lato in seguito il suo fisico si ammalò, l’anima ritrovò sé stessa negli spazi immensi in cui si era specchiata.
C’è sempre una doppia valenza negli atti delle persone. Anche in quelli di Chatwin.
C’è il bambino nevrotico e narcisista che cerca perennemente lo staordinario, incapace di vivere l’urto quotidiano con il mondo adulto, fatto di impegni e legami costanti; ma c’è anche l’esploratore, l’uomo affamato di spazi che cerca realmente di comprendere ciò che lo circonda.
Fu così che arrivò a tracciare Le Vie dei Canti.
Finalmente, in Australia, trovò il modo per dare una forma agli studi sul nomadismo che avevano scortato ogni suo percorso, interiore ed esterno, aggiungendo riflessioni, conversazioni telefoniche, incontri con persone, luoghi…
Anche qui finzione e realtà si mescolano, come sempre nelle sue opere.
Se In Patagonia gli aprì il varco nei sentieri della letteratura, Le Vie dei Canti lo consacrò come scrittore.
E mentre toccava l’apice, il destino muoveva il Re nella scacchiera del fato: la stella iniziava a bruciare, ardendo nella notte in cui si consumava il suo destino mortale.
Se la sua vita fu come un fuoco d’artificio, il declino fisico durò invece diverso tempo.
L’Aids era agli inizi, le nozioni sulla malattia che sterminava omosessuali e tossicodipendenti erano ancora vaghe, limitate. Ma era già chiaro come imprimesse un “marchio” su colui che veniva colpito.
Chatwin contrasse l’Aids durante uno dei suoi vagabondaggi sessuali in fuga da Elisabeth, che dovette sempre contenderlo a uomini occasionali oppure “fissi”, di cui lui, sempre in bilico sulla sua eterosessualità, si innamorava costantemente, pur facendo fatica ad ammettere la doppia valenza sessuale che lo caratterizzava.
Non era omosessuale, infatti, ma anche nel gioco carnale e sentimentale, come nella vita, era un randagio, un essere senza perimetri precisi, privo di inclinazioni certe, costanti.
"Una bussola senza ago", come lo definì un amico dell'epoca.
Chatwin fu uno degli ultimi eroi romantici. Come loro, innamorato dell’esotico, del “lontano”, condannato a vivere senza quiete, divorato dalla malinconica, esaltata febbre del viaggiatore di mondi lontani.
Certo, era anche molto mondano, della vita metropolitana (quella newyorkese, ad esempio) amava soprattutto i salotti, dove con la sua parlantina animava le serate di intellettuali, scrittori, uomini di potere. Incantava i borghesi, seduceva continuamente uomini e donne che in lui vedevano il salto oltre ogni limite.
Ma il destino dell’eroe romantico non ha mai un lieto fine, lo sappiamo bene.
C’è qualcosa che lo accomuna a Rimbaud, nell’ultima porzione di vita. L’eroe morente vive il delirio della sua fine scoprendosi umano, terribilmente umano. E piccolo, confronto agli dèi che ha sfidato.
Per Bruce Chatwin, il viaggiatore, lo zingaro, il vagabondo, il menestrello delle canzoni intonate dalla sua fantasia mobile e rutilante¸ il tramonto è progressivo, dolente, mentre il suo cielo si tinge di rosso nel commiato dall’esistenza piena di sole abbagliante.
E c’è qualcosa di poetico nella tragedia finale di un uomo che ha girato il mondo sulle sue gambe e che in seguito è obbligato a starsene a casa, in quella casa definita come “perversione”, accudito da una ritrovata moglie, seguito con occhio affettuoso dagli amici che lui non aveva mai fatto incontrare tra loro, forse nel timore di vedere sminuita la sua presenza centrale intorno a cui dovevano ruotare tutti “gli altri”.
"Niente assomiglia di più a una persona del modo in cui muore", scrive Garcìa Marquez nell'Amore ai tempi del colera.
Chatwin muore di Aids, una malattia controversa come lo fu la sua esistenza, sempre densa di mai risolte contraddizioni.
La levità opposta alla gravità, l’ostinazione del viaggiare a cui fa da contraltare la scrittura a tavolino, chiuso a casa sua o in appartamenti prestati da amici, il matrimonio interrotto continuamente da ingressi estranei, l’eterosessualità e l’omosessualità che procedono parallelamente, come fossero l’una segretamente nascosta all’altra, la passione per gli oggetti e la tendenza minimalista a privarsi di tutto, la gioia delle conversazioni mondane e la serenità dell’isolamento, il piacere di lasciare la sua casa e il bisogno di tornarci sempre, come un uccello migratore.
Verso la fine della sua vita, la conversione religiosa sigilla ciò che aveva lui già intuito, anni prima, recandosi sul monte Athos: esisteva qualcosa di più vasto della Pagonia, e del mondo intero. Qualcosa che sfuggiva continuamente, proprio come lui.
La sua non fu una vera aderenza alla religione, si trattò più probabilmente di un incontro ancora “esterno”, suggerito anche dal fascino dei greco-ortodossi, così lontani dall’odiata-amata civiltà di cui non riusciva a fare meno per poi allontanarsi di nuovo. Come con sua moglie. E forse anche con sé stesso. Ma anche l’incontro con Dio è una sfida. Anni prima aveva scritto: “Tutta la mia vita è stata una ricerca del miracoloso: eppure al primo vago segno del soprannaturale, tendo a diventare razionale e scientifico”.
Il vero senso del sacro, durante la sua vita, aveva avuto il volto e la storia dei nomadi. Ma la malattia ci avvicina a parti sepolte di noi, e mano a mano i nomadi e Dio si fondevano come motori propulsori di una spinta verso lo sconosciuto: “la ricerca dei nomadi è la ricerca di Dio”, scrisse nel suo diario. “A me interessa il meraviglioso”, aveva detto una volta a un amico. Non importava la provenienza ma il persistere di quell’essenza impenetrabile, pulviscolare, che scomponeva la materia del mondo.
I suoi comportamenti maniacali, la sua ansia di vivere, il metodo con cui aveva portato avanti la sua scrittura, tutto lasciava presagire che in qualche modo “sapesse” di non avere davanti un tempo lungo. “Le stelle conoscono l’ora della nostra morte”, aveva annotato sul suo taccuino.
La sua era arrivata.
L’eroe muore e porta con sé i suoi caleidoscopi pieni di storie.
A noi restano i suoi libri, divenuti un segno di riconoscimento per i viaggiatori in fuga dal turismo di massa.
E i suoi appunti, i diari, i ricordi frammentati di persone come Salman Rashdie o Werner Herzog.
“Il dotto sapere/ è per ma bagaglio / troppo greve / da portare / ho fretta / e viaggio leggero” (Taccuini, Mauritania, 1970).
A quarantotto anni Chatwin se ne va al riparo da quella ordinaria vecchiaia dalla quale, ne siamo certi, sarebbe comunque evaso.