Sono le parole le vere colpevoli. Sono fra le cose più indisciplinate, più libere, più irresponsabili e più riluttanti a lasciarsi insegnare. Certo, possiamo sempre prenderle, suddividerle e metterle in ordine alfabetico nei dizionari. Ma le parole non vivono nei dizionari. Vivono nella mente.
Se ne volete una prova, pensate a quante volte, nei momenti di maggiore emozione, vi capita di non trovarne nessuna quando più ne avreste bisogno.
Eppure il dizionario esiste; e lì, a vostra disposizione, ci sono mezzo milione di parole tutte in ordine alfabetico. Ma potete davvero usarle?
No, perché le parole non vivono nei dizionari, vivono nella mente.
Consultate il dizionario. Lì, senza dubbio, si trovano drammi più splendidi di Antonio e Cleopatra, poesie più belle dell’Ode all’usignolo, romanzi al cui confronto Orgoglio e pregiudizio e David Copperfield non sono altro che rozzi esercizi da dilettante.
La questione è solo quella di trovare le parole giuste e di metterle nell’ordine giusto.
Ma non possiamo farlo perché non esse vivono nei dizionari, ma nella mente.
E come vivono nella mente?
Nei modi più strani e svariati, non molto diversamente dagli esseri umani; vagando qua e là, innamorandosi e accoppiandosi.
È indubbio che siano molto meno limitate di noi dalla convenzioni e dai cerimoniali. Parole ergali possono permettersi di essere accoppiate con le più comuni (…).
Per questo, imporre regole a tali impenitenti vagabonde è del tutto inutile. Le poche regole di grammatica e di ortografia esistenti sono le uniche restrizioni che potremmo imporre loro. Al massimo possiamo dire di loro – man mano che le spiamo dal profondo limite della caverna scura e male illuminata in cui vivono – che sembrano preferire la gente che pensa e sente prima di usarle, ma non deve essere gente che sente e pensa a loro, ma a qualcosa di diverso. Perché sono molto sensibili, e si sentono facilmente a disagio. Non amano che si discuta della loro bellezza o della loro impurità. (…). E non amano essere sollevate in punta di penna ed esaminate una per una. Restano sempre unite in frasi, in paragrafi, e a volte per intere pagine di fila.
Odiano essere utili; odiano dover far soldi; odiano andare in giro a tenere conferenze. In breve, odiano qualsiasi cosa imponga loro un unico significato, o che le immobilizzi in un’unica posa, perché cambiare fa parte della loro natura.
(Virginia Woolf, Ore in biblioteca e altri saggi,
“L’unica cosa che conta, per me, è scrivere bei libri”, mi disse una volta Hemingway dopo aver letto una brutta recensione del suo romanzo Al di là del fiume e tra gli alberi sul Time.
“Forse sono un poco di buono, un figlio di puttana che conduce una vita molto disdicevole.
Ma sono uno scrittore valido e coscienzioso, e questo me lo devono riconoscere”.
Una volta provò a ipotizzare il motivo per cui era stato criticato tanto spesso.
“Mi prendo in giro continuamente, e prendo in giro tutti gli altri e qualsiasi cosa, e la maggior parte dei critici letterari è molto solenne e non ha senso dell’umorismo; così si offendono”, disse.
(Lilian Ross, Ritratto di Hemingway, minimum fax)
Jorge Luis Borges disse in una vecchia intervista che il problema dei giovani scrittori di allora era che nel momento di scrivere pensavano al successo o all’insuccesso. Invece, quando lui era agli inizi pensava solo a scrivere per sé stesso.
“Quando pubblicai il primo libro – raccontava – nel 1923, ne feci stampare trecento copie e le distribuii fra i miei amici, tranne cento copie, che portai alla rivista Nosotros”.
Uno dei direttori della pubblicazione guardò atterrito Borges e gli disse: “Ma lei vuole che io venda tutti questi libri?”. “Certamente no – gli rispose Borges – Per quanto li abbia scritti, non sono completamente pazzo”.
L’autore dell’intervista, Alex J.Zisman, che allora era uno studente peruviano a Londra, raccontò in margine che Borges aveva suggerito a Bianchi di infilare copie del libro nelle tasche dei cappotti che venivano lasciati appesi nel guardaroba del suo ufficio, e così riuscirono a far sì che venisse pubblicata qualche recensione”.
(Gabriel Garcìa Màrquez, Taccuino di 5 anni, Oscar Monadori)