Il digiuno che non mi ha fatto morire
I tre protagonisti sono andati a Istanbul dal 15 al 19 marzo 2002 e hanno visitato e fotografato 14 ex-detenuti ammalati che avevano praticato il “fast-death” per opporsi col proprio corpo all’isolamento carcerario totale (in Turchia si chiamano celle F-type).
L’autore, non musulmano, non comunista, non rivoluzionario, non no-global, è il medico del gruppo. Testimone di un crimine.
di Gianfranco De Maio
Aprile 2002
Mi capita di dimenticare subito le cose che mi dicono, o le cose che mi succedono. Perciò devo scriverle. Adesso, mentre me le dicono e succedono. Anche se poi, quando le leggo, le immagini non tornano. A volte ho solo l’impressione di ricordare. Ma almeno so che sono successe, perché la scrittura è la mia, e così pure se è l’unica, c’è una cosa mia che rimane.
Oggi siamo venuti all’appartamento. Da Hulia e dagli altri. L’appartamento si trova nel quartiere di Sisli, e quelli che ci abitano sono tutti amici. Anche amici miei, ma io non ricordo quando lo siamo diventati. Oggi è lunedì, e mio cugino Erol mi ha detto che dovevamo venire perché c’erano degli stranieri che mi volevano incontrare. Degli italiani, mi ha detto. Non ho ben capito chi sono, ma ora che li guardo sembrano brave persone. Una è una fotografa, ha un bell’apparecchio e si muove continuamente a riprendere quelli che parlano. Ma pure quelli che fumano o che bevono il the. E pure me ogni tanto, e a me viene da ridere quando si avvicina. Quando quelli che parlano finiscono di parlare, si alzano in tre o quattro e vanno in un’altra stanza. Degli stranieri vanno in due, la fotografa e un uomo che mi ha detto mio cugino che è un medico. Prima di alzarsi hanno parlato tanto, in tre lingue diverse, il turco, poi il francese mi pare, e un’altra lingua strana che deve essere l’italiano. Cioè il medico dice qualcosa in francese, un ragazzo che non deve abitare nell’appartamento lo ascolta e poi fa delle domande in turco a uno degli amici, a uno alla volta, che risponde in turco.
Il ragazzo allora parla in francese al medico, che poi a volte si rivolge alle due donne nella lingua che deve essere l’italiano. Anche la terza straniera è una donna, una donna bionda, che tiene acceso un piccolo registratore mentre si parla, e scrive su un quaderno, come fa pure il medico. E come faccio io.
Stiamo seduti tutti attorno nel soggiorno dell’appartamento. Sul divano le poltrone e il tappeto. Ma io sto su una sedia, perché mi fanno male le gambe. C’è Hulia che apre la porta, Metin che risponde al telefono. Melek, che mi abbraccia come se ci conoscessimo molto bene ed io so che l’ho già vista ma non mi ricordo dove, anche se lei mi parla di una prigione dove siamo stati assieme. Ci sono Ismail e Gunnaz che hanno difficoltà a camminare e si muovono a scatti. C’è Hassan, che pure lui non riesce a camminare da solo. C’è Esmahan che parla molto e fa battute. C’è Erol, mio cugino. C’è il ragazzo che non vive nell’appartamento e che parla francese e turco, e ho sentito che anche lui è di Istanbul. E ci sono i tre italiani, ma i loro nomi non li ho capiti. O già non li ricordo più.
Uno alla volta gli amici dell’appartamento raccontano che sono stati arrestati, per quanto tempo sono stati in prigione, dicono il nome la prigione. Anch’io sono stato arrestato e sono andato in prigione, ma non mi ricordo niente. Molte delle domande riguardano il digiuno. Quanti giorni è durato, quando è stato interrotto, quando è stata presa la vitamina, quando è stata interrotta, quando sono andati in ospedale. Ma non tutti sono andati in ospedale. Io sembra di sì.
La fotografa ogni tanto si rivolge a me, senza dire niente, e scatta. Se me ne accorgo mi viene da ridere, ma a volte non me ne accorgo, e resto serio.
Ora tocca a me, Murat. L’italiano mi guarda e dice cose in francese. Il ragazzo di Istanbul mi guarda e mi chiede in turco quanti anni ho e a che età sono stato arrestato. Che ho ventitre anni e che sono nato a Musc lo so, per il resto guardo mio cugino Erol che mi ha assicurato il suo aiuto. Allora imparo che sono stato arrestato a diciotto anni, per appartenere a una “organizzazione illegale”, così ha detto, e mi hanno condannato a dodici anni di prigione. Ne avevo passati cinque a Umraniye, poi c’è stata l’”Operazione”. Mio cugino si ferma e mi dice che l’”Operazione” è stato un attacco della polizia, il 19 dicembre 2000, per costringere i prigionieri a interrompere la protesta dello sciopero della fame. Ci sono stati molti morti, in diverse prigioni, e dopo ci hanno spostato da un’altra parte. A me a Edirne. Io lo sciopero pare che l’avevo iniziato il dieci dicembre, prima dell’”Operazione”, e poi l’ho continuato. Per cento giorni. Poi ho smesso, e poi ho ricominciato, ma non si sa che giorno, perché dovrei saperlo io ma non lo so ricordare. Dicono che è difficile ricostruire i miei tempi. Pare che non sia possibile sapere per quanto tempo ho preso assieme all’acqua, allo zucchero e al sale, anche la vitamina B. Che è una cosa molto importante, che più uno la prende, meno facilmente si ammala nel cervello. Io sono ammalato nel cervello.
Comunque al novantacinquesimo giorno del secondo periodo che rifiutavo il cibo, ho perso la conoscenza. Mio cugino continua a dire che sono stato portato all’ospedale di Edirne, e ci sono stato una settimana, e lì mi hanno praticato l’alimentazione forzata, cioè mi hanno fatto passare la nutrizione con un ago nelle vene. Se non ero incosciente non l’avrei permesso, così dice Erol. Quindi sono stato una o due settimane nell’infermeria del carcere. E poi mi hanno fatto uscire con una diagnosi di Sindrome di Wernicke-Korsakoff, e i miei genitori mi hanno preso che ero sulla sedia a rotelle. Guardo ancora Erol, e lui mi dice che questa malattia è una perdita della memoria, anzi “della capacità di memorizzare” ha detto, e causa dei disturbi dell’equilibrio che ho quando sono stanco.
Il medico mi fa capire che vorrebbe visitarmi, allora mi alzo, e lui chiede qualcosa in francese. Mi traducono che vuole sapere se ho sempre avuto la schiena storta. Mio cugino dice che quando sono stato arrestato non ero così alto, e che mi ha visto così solo dopo che sono uscito. Dopo cinque anni. Sorridono tutti. Andiamo nell’altra stanza, col medico, la fotografa, il traduttore, Erol e Metin, che è medico pure lui. Mi fa prima camminare ad occhi chiusi, e mi sento sbandare. Infatti dicono che devio a destra. Poi mi passa un martelletto davanti agli occhi, e osserva come si muovono ; mi fa toccare il naso con gli indici delle due mani, anche ad occhi chiusi ; mi prova la forza delle gambe, delle braccia, delle dita ; col martelletto batte sui polsi, sui gomiti, sulle ginocchia, sotto i piedi ; poi mi tocca sulle mani, sulle braccia, sulle gambe, e mi fa chiedere se sento uguale tra destra e sinistra ; mi fa dire a occhi chiusi se sento spostare le dita dei piedi verso su o verso giù. Di ogni cosa prende nota. Vorrei chiedere a Erol perché, forse anche lui dimentica presto. Alla fine mi mette una mano sulla spalla, e mi dà una carezza, un pizzico leggero sulla guancia, e mi sorride. Io non chiedo niente. Tanto non me lo ricorderei.
Durante tutto il tempo la fotografa ha scattato foto. A un certo punto mi hanno chiesto se mi dava fastidio. No, non mi dava nessun fastidio.
Torniamo in soggiorno, e c’è del the caldo appena fatto. Parlano un po’ e Ismail risponde a qualcosa che ha detto il medico sull’ospedale di Edirne, che sì è uno dei peggiori, ma non l’unico. A Izmir hanno per esempio ucciso un detenuto aprendo al massimo la valvola della perfusione. Ma il medico, tramite il traduttore, precisa che nessuno questo lo potrà mai dimostrare, mentre una denuncia internazionale contro l’ospedale di Edirne, per non aver fatto una corretta terapia a me ed ad altri, per aver dato l’alimentazione in vena senza vitamina B, allo scopo di danneggiarci le funzioni cerebrali, costringerebbe quei medici ( “collaborazionisti” li ha chiamati ) a dover dare una giustificazione, a difendersi. E in ogni caso potrebbe tutelare altri Murat in “digiuno della morte” che si trovassero nelle mie stesse condizioni. Sembra molto molto arrabbiato il medico mentre dice queste cose. La fotografa lo fotografa.
Poi cominciano a fare ad Hassan le stesse domande che hanno fatto a me. Lui sa rispondere. Ha fatto uno sciopero più lungo del mio, 236 giorni tutti di seguito. A lui non fanno subito la visita perché deve andare a fare la fisioterapia. Ci va assieme a Gunnaz, accompagnato da Hulia. La sua visita la continueranno nel pomeriggio. Guardo Erol, lui capisce che voglio andare via. Mi è venuta fame. Salutiamo gli amici e gli stranieri. Tutti mi abbracciano, baciano e sorridono. Non sembrano allegri però. Ora che usciamo devo chiedere a Erol perché ho fatto quello sciopero.