La memoria nasce dal buio
Tahar Ben Jelloun è uno scrittore che a Parigi non ha mai dimenticato il Marocco, la sua terra d'origine le cui suggetioni sono sempre presenti nella produzione letteraria. Le radici diventano così stimolo per affrontare il tema del ricordo, a volte salvifico a volte "maledetto"...
di Marcella Papeschi
Lo scrittore Tahar Ben Jelloun nutre i suoi romanzi di memorie individuali e collettive che lo tengono ancorato alla terra natale, il Marocco, paese teso fra modernità e tradizione.
Il riaffiorare della memoria in molti romanzi trae origine dal buio, esperienza reale e simbolica che da sfondo diventa condizione necessaria per dare voce a una poetica viva e toccante.
La memoria della propria terra può essere struggente nostalgia o fonte di nutrimento, storia, confronto per chi, per scelta o necessità, è migrato altrove.
Per Tahar Ben Jelloun, scrittore, giornalista e intellettuale, nato in Marocco nel 1944, la memoria rivisitata attraverso la narrazione resta lo strumento per rimanere legato indissolubilmente alla sua terra.
Ben Jelloun, laureatosi in filosofia a Rabat dopo un percorso di studi in lingua francese (il Marocco fino al 1956 era un protettorato della Francia), ha lasciato il suo paese nel 1971 alla volta di Parigi, dove ancora vive e lavora.
La sua partenza è stata una libera scelta per non volersi assoggettare a un’arabizzazione del sapere filosofico e a una divulgazione eccessiva del pensiero islamico, tendenze culturali e politiche degli anni Sessanta nate come rivalsa verso la cultura francese.
La Francia è diventata così la sua culla letteraria, luogo ideale di formazione e confronto, e il francese è stato assunto come lingua definitiva per la sua vasta produzione letteraria.
Nonostante ciò, il Marocco rimane sfondo vivo e parlante nella maggior parte delle sue narrazioni.
Vorrei qui soffermarmi su due romanzi che affrontano il tema della memoria trattandola nel duplice aspetto di memoria salvifica e memoria maledetta.
Entrambi i romanzi hanno come sfondo il buio, un buio fisico e tangibile nella prima proposta, il buio dell’infermità mentale nella seconda.
Il libro del Buio (Einaudi 2001) narra la lunga reclusione in una prigione nera come un nido di talpe di alcuni uomini detenuti in condizioni disumane.
La vicenda trae spunto da un evento reale: nel 1971 un commando militare in Marocco tentò un colpo di stato attraverso l’irruzione nella residenza estiva del re. I responsabili furono condannati alla prigione in una remota zona desertica a sud del paese.
La pena venne scontata al buio perché le celle strette e umide erano collocate in Cette aveuglante absence de lumière (titolo originale del romanzo).
Nessunissima luce.
Mai il benché minimo filo di luce.
Ma i nostri occhi, pur avendo perso lo sguardo, si erano adattati.
Vedevano nelle tenebre o credevano di vedere.
"Le nostre immagini erano ombre che si muovevano nel buio, spintonando gli uni e gli altri, arrivando fino a rovesciare la brocca dell’acqua o a spostare i pezzi di pane raffermo che alcuni conservavano per fronteggiare i crampi allo stomaco. La notte non era più notte, poiché non aveva più giorno, più stelle, più luna, più cielo. Noi eravamo la notte."
L’io narrante è un detenuto, e la narrazione è potente e tragica.
In prigione ci sono cinquantadue uomini, fra cui il malvagio, lo specialista di scorpioni, l’addetto a misurare il tempo; molti di loro non riescono a sopravvivere.
Il tempo è il protagonista della narrazione. Il tempo presente fatto di privazione, dolore, assurdità, sporcizia, fame, freddo, ma anche di comunicazione fra i disperati prigionieri; il tempo passato che rappresenta ciò che non è più, che ricompare attraverso i ricordi nei momenti di solitudine, quando i detenuti, nel silenzio, hanno a che fare con il proprio corpo e la propria testa.
Ecco allora che la memoria assume la sua caratteristica tipica di Giano bifronte: memoria che distrugge e memoria che crea.
Nel romanzo, per il protagonista inizialmente i ricordi sono assassini perché rimandano a ciò che è stato perso, e il dolore provoca nostalgia e morte.
"Ricordare significava morire.
Mi ci è voluto del tempo per capire che il ricordo era il nemico.
Colui che chiamava a raccolta i propri ricordi moriva subito dopo. "
Solo col tempo, e la prigionia dura (diciotto anni), il protagonista impara ad addomesticare la memoria.
"Ricostruire le cose con la mente, evitare le trappole col ricordo.
Dopo tanti anni non avevo più paura del mio lontano, lontanissimo passato.
Mi era divenuto estraneo."
Questa estraneità diventa uno strumento indispensabile per il protagonista, perché gli permette di farsi narratore e d’intrattenere i compagni distraendo anche sé stesso dall’alienazione della prigionia.
I temi narrati attingono la loro materia dal passato ma se ne distanziano totalmente.
"Per me era indispensabile non dar alcun riferimento storico e geografico.
Il racconto era spesso ambientato in un’epoca vaga di un oriente mitico, il più caotico e il più lontano possibile."
Ecco un altro tema legato alla memoria: quello della creazione letteraria.
Senza far riferimento a un bagaglio di esperienze trascorse, non può esistere alcuna narrazione.
Raccontare mondi nuovi può avvenire solo attraverso l’elaborazione del reale e il reale non può collocarsi che nel passato, dal momento che il presente dello scrittore è la sua stasi produttiva di fronte al foglio bianco.
Un secondo romanzo, in cui la memoria è originata dall’esperienza del buio, è Mia madre, la mia bambina, (Einaudi 2005) dove lo scrittore narra gli ultimi anni della mamma malata di Alzehimer.
Lalla Fatma è in balìa della confusione mentale caratteristica del male che l’affligge, male in cui i ricordi lontani si accavallano gli uni sugli altri mescolandosi con elementi del presente e dell’immaginazione.
In un’intervista Ben Jelloun dice che solo con la malattia sua madre ha raccontato certe esperienze del passato.
Il pudore tipico della cultura araba, soprattutto riferito all’universo femminile, fino ad allora aveva prevalso sulla sua curiosità di figlio che lo aveva spinto più volte, in occasione delle trasferte nel paese natale, a porre domande su storie, riti, oggetti, voci d’altri tempi.
"Mia madre non mi ha raccontato il suo matrimonio. Ha mantenuto il mistero; sono fatti che non si raccontano ai figli. La nonna me ne aveva parlato un po', ma ero piccolo."
La madre che permette al figlio di appropriarsi della memoria familiare, non è la madre vigile, razionale, intelligente, sebbene analfabeta, che racconta storie, ma la madre con la mente posseduta dalla malattia.
"Mia madre rivisita la propria infanzia. La sua memoria si è rovesciata, si è sparsa sul terreno umido. Il tempo e la realtà non si intendono più. Lei si lascia trascinare da emozioni che riaffiorano."
Il tema dell’appartenenza a una storia, intesa come trama e come filo di collegamento fra generazioni, è caro a Ben Jelloun.
La madre è per lui un tramite per avvicinarsi a un Marocco ancora preservato dall’invasione massmediatica e dall’omologazione culturale.
Tradizioni e passato vengono riproposti, in questo romanzo come in altri, nella loro verità, al di là di giudizi etici definitivi. C’è sempre amore verso la cultura del proprio paese, anche se può generare mostri, come avviene in Creatura di sabbia, uno dei romanzi più conosciuti e più toccanti della sua produzione.
Tornando al tema del buio, è interessante riflettere come Tahar Ben Jelloun, nei suoi romanzi, lo percorra più volte attribuendogli confini diversi.
In altre narrazioni il buio è solitudine, miseria, vuoto.
Il buio quindi non solo come sfondo, ma anche come condizione necessaria all’anima per tuffarsi nel profondo.
La scrittura di Ben Jelloun è infatti una scrittura d’anima, un’anima che accoglie emozioni pure e tracce sedimentate di storia individuale che è anche memoria collettiva.