Il mestiere dello sceneggiatore
Gianni Romoli scrive film. Ha stretto da anni un felice sodalizio con Ferzan Ozpetek, per il quale ha scritto fra l'altro Harem Suare, Le fate ignoranti, Saturno contro. Sceneggiare non è impresa facile: si tratta di raccontare storie che diventeranno immagini. Qui ci racconta l'uso della parola e del dialogo in uno dei lavori più affascinanti.
di Francesca Pacini
Che differenza c'è tra scrivere romanzi e scrivere sceneggiature? Entrambi raccontano storie...
La sceneggiatura è una scrittura ausiliaria: non è fine a se stessa, serve affinché un film venga girato. Può essere anche ben scritta, ma non ha bisogno di uno stile di scrittura. È funzionale al film che racconta. Divisa per scene, specifica i fatti che accadono insieme ai dialoghi dei personaggi. A volte ha anche delle indicazioni di ripresa e di montaggio. Non è paragonabile a un romanzo, pur raccontando una storia. Non ha valore letterario.
Quali le difficoltà maggiori, nel secondo caso?
La difficoltà maggiore nello scrivere una sceneggiatura è avere un forte senso della struttura narrativa di ciò che si vuole raccontare e avere il dono della sintesi, sia nelle descrizioni che nei dialoghi che nel taglio delle scene. Non bisogna mai dimenticare che quello che si sta scrivendo verrà poi trasformato in un linguaggio che privilegia soprattutto l’immagine. Non potendo usufruire dell’aiuto dello stile letterario, quella della sceneggiatura è una scrittura ‘nuda’, senza orpelli che la aiutino magari a nascondere la pochezza della storia che stai raccontando o i difetti dei fatti e dei dialoghi che stai mettendo in scena. Non hai nulla che ti aiuti a barare e quindi devi essere molto convinto di quello che scrivi e nello stesso tempo però pronto a rinnegarlo e magari a buttarlo via. Perché in una sceneggiatura mettono bocca tutti: dal regista al produttore agli attori. E’ un continuo work in progress e chi la scrive deve essere continuamente pronto a modificare, aggiungere, tagliare, rinnegare continuamente se stesso. Sempre però avendo ben presente quali sono gli elementi fondamentali su cui non transigere e difenderli fino all’ultimo. Uno sceneggiatore ha dei lettori che sono quasi dei co-autori. Coloro che lo leggono vogliono entrare nel processo creativo, che d’altronde li riguarda perché sono poi loro che devono realizzare il film.
É stato un lettore "forte" prima di essere uno scrittore per il cinema? Che tipo di narrativa ama?
Da bambino ero un lettore onnivoro e precoce. Già a 13 anni leggevo Moravia e Pasolini, Tolstoj e Gongol. Ora leggo meno, per mancanza di tempo. Ma tutte le sere, prima di dormire, leggo a letto almeno un’ora. Leggo romanzi e libri di e sul cinema. Non ho un genere preferito, leggo di tutto, anche riviste italiane ed estere (quasi sempre di cinema).
Le fate ignoranti è uno dei più bei film del cinema italiano degli ultimi dieci anni. Come l'ha concepito e sviluppato?
Io e Ozpetek venivamo da una esperienza dura e faticosa, quella della realizzazione di Harem Suare per il quale eravamo stati tre mesi in Turchia ed era stata una lavorazione piena di imprevisti e di incidenti. In più il film non era venuto come noi avremmo voluto e non era neanche andato tanto bene. Delusi e stanchi decidemmo di fare un altro film ma ad una condizione: che fosse un film semplice, ambientato a Roma, possibilmente sotto casa. Nacque così ‘le Fate ignoranti’ ambientato nel quartiere Ostiense dove Ozpetek vive e dove io e Tilde Corsi abbiamo il nostro ufficio di produzione. L’idea di base la ebbe Ozpetek: voleva raccontare la storia di una donna che, quando le muore il marito, scopre che aveva avuto un amante dello stesso sesso. Inoltre gli piaceva anche l’idea che lei, alla ricerca di questo amante, finisse in un palazzo simile a quello in cui viveva Ozpetek stesso, con molti amici sempre in casa, con le domeniche incentrate su pranzi collettivi, radunando tutti coloro che non avevano parenti o famiglie a Roma. Iniziammo a parlarne e a sviluppare la storia. Decisi da subito che tutto il film sarebbe stato dal punto di vista della donna. Mi affascinava l’idea di fare un film sul superamento di un lutto reale che fosse però anche un lutto metaforico, la perdita cioè del senso di sé, il superamento dei propri pregiudizi, l’accettazione del cambiamento e la crescita interiore. Mi sembrava una idea molto ottimista, perfetta per un film che voleva essere piccolo e intimista. Mentre scrivevo la sceneggiatura avevo già in mente la Buy e Accorsi. A differenza di Harem Suare, Le Fate fu un film dolce da fare. Ci fu piena armonia tra tutti e un gran senso di divertimento. La sceneggiatura fu riscritta più volte e Ozpetek organizzò prima delle riprese una serie di letture collettive con tutti gli attori, così che anche i dialoghi furono corretti e resi più ‘parlati’ e meno scritti grazie proprio all’intervento degli attori.
Scrivere dialoghi intelligenti è un'arte. Come si impara?
Scrivere bei dialoghi si impara esercitandosi molto, rileggendo a voce alta quello che si è scritto. Ma è anche questione di talento e di studio. Leggere molto, vedere molti film. Spesso quando devo scrivere un film, rivedo alcuni film per ispirarmi. Ho una videoteca molto fornita, quasi diecimila titoli. A volte per esercitarmi finisco anche con il trascrivere dialoghi da altri film per impararne il ritmo, per cercare di scoprire il segreto del
Gianni Romoli (a sinistra) con Ferzan Ozpetek (a destra)
concatenarsi delle battute. Non si tratta di copiare o di citare i classici, bensì di saper usare il vasto repertorio che abbiamo a disposizione. Si impara moltissimo dagli altri, dai film che ci hanno emozionato e che amiamo. Poi i dialoghi vanno raffinati con gli attori. Quando senti le battute recitate dagli altri, riesci a limarli, a renderli più realistici e credibili. Spesso tagli o allunghi, cerchi di farli il meno letterari possibile. E poi devi sempre ricordarti che il cinema è soprattutto immagine: spesso tante parole sono inutili, possono essere sostituite da uno sguardo, da un movimento della Macchina da presa, da una nota musicale. Quando scrivo la prima stesura di una sceneggiatura non mi censuro e scrivo dialoghi molto lunghi facendo dire tutto quello che c’è da dire. E’ allora che interviene Ozpetek che taglia, riduce, accorcia perché ha un occhio meno letterario del mio e più da regista. Capisce subito quali sono le parole di cui non ha bisogno e come spesso i personaggi per dire una cosa è meglio che ne dicano un’altra e che tengono sottinteso il vero senso di quello che vogliono dire.
A quale altro film da lei sceneggiato è legato e perché?
Sono legato a tutti i film che ho fatto, anche a quelli che non hanno avuto successo o la cui realizzazione mi ha un po’ deluso. Però amo molto Dellamorte Dellamore di Michele Soavi e Saturno contro di Ozpetek. Il primo perché è stato il primo film di quelli da me scritti che ho anche prodotto insieme a Tilde Corsi. Ho sempre amato il genere Horror e lavorare con Soavi è un vero piacere perché è il regista più visionario che conosco. Il libro di Sclavi da cui è tratto il film non aveva una vera e propria trama, era fatto di frammenti narrativi ed aveva un umorismo talmente raffinato e difficile da rendere che per me tradurlo in sceneggiatura era una vera e propria scommessa. Il film ebbe successo, fu venduto in tutto il mondo e, a tanti anni di distanza, è diventato un vero e proprio ‘cult’, soprattutto in America. Saturno contro lo amo perché, a livello di scrittura, è stato un vero e proprio esperimento. L’ho scritto senza partire da un vero soggetto, ma direttamente sceneggiando senza quasi sapere dove sarei andato a parare. Inoltre non ho tenuto conto delle regole di base che ci sono quando scrivi una sceneggiatura. Via la divisione in tre atti; via il passato dei personaggi presi direttamente al presente e presentati come se già li conoscessimo; ci sono molti ‘tiranti’ narrativi accennati e poi lasciati perdere; c’è insomma una totale libertà creativa, fuori dagli schemi prefissati di una sceneggiatura. Mi piace scrivere ogni personaggio, anche il più secondario, come fosse un protagonista. Poi in questo è bravo anche Ozpetek nello scegliere gli attori giusti e nel saperli guidare.