Blog politick


di Francesca Pacini



Diciamolo subito: parlare di blog può essere molto stimolante o molto banale. Come accade per ogni fenomeno della rete basato sul contributo partecipativo, privo di filtri, possiamo avere una qualità pessima o "un’alta risoluzione". Un po’ come succede con le pagine di Wikipedia, a volte ben fatte, utili, altre volte, invece, gravide di errori e imprecisioni. Dipende da noi imparare a discriminare. E non è poco. 

Questo dossier, all’inizio, era stato concepito per un solo numero di Silmarillon. Ma, in linea perfetta con il meccanismo del web, ci siamo imbattuti in una serie di “ipertesti” che hanno esteso la nostra navigazione, e che ci hanno fatto optare per una soluzione diversa. Da qui l’idea della divisione in due parti. Del resto, la blogosfera somiglia a una sorta di biblioteca di Babele in cui volentieri ci si smarrisce, ci si ritrova, ci si confonde.
Perché c’è spazio per tutti, nel web. Specie da quando per dire qualcosa basta aprire un blog e lanciare su internet, in pochi secondi, i propri pensieri. 

Già, il blog. Un fenomeno che in pochi anni è cresciuto in modo vertiginoso, coinvolgendo perfino gli ultrasessantenni che al gioco della briscola ora preferiscono chiacchierare in rete con gli altri. Se all’inizio il web-log era un’espressione diaristica, nata dall’urgenza di raccontare (quella stessa urgenza che affligge le case editrici, invase da memorie private che aspirano a diventare letteratura), in seguito è diventato un insieme di cluster comunicanti che hanno fatto della comunità dei blogger una sorta di super-Google, come scrive Granieri nel suo bellissimo Blog generation, che si modifica continuamente grazie alle opinioni che esprime e all’efficacia con cui le trasmette.
Sono nati così diversi tipi di blog: letterari, erotici, giornalistici, politici, ecc. Insomma, ogni forma di pensiero sembra trovare nella rete la possibilità di un’espressione libera, spontanea, capace di creare aggregazioni. 

Forse perché oggi il web rappresenta la forma più vicina all’abbattimento delle asfittiche verticalità che hanno sempre fatto sentire il cittadino come un ospite cronico, vittima dei ghota della politica, dell’economia e dell’informazione (sì, esatto, anche il gotha dell’informazione) da cui dipendono le scelte di un mondo che lui può solo commentare, ma non agire. 
In fondo, la rivoluzione digitale assomiglia un po’ alla presa della Bastiglia, in cui il “popolo” diventa autore delle sue azioni facendo cadere le teste coronate. E di teste “coronate” i blogger ne hanno fatte cadere parecchie. Basta pensare a quel Lott repubblicano ignorato dai media americani e poi messo all’indice grazie ai blogger, che ne hanno diffuso i pensieri razzisti scandalizzando l'opinione pubblica fino a ottenere le sue dimissioni.  Ma gli esempi sono davvero tanti. L’informazione dal basso incide così sull’alto, in una democrazia orizzontale in cui ognuno esprime il proprio pensiero. Si crea così una circolazione di idee senza precedenti. 

Ci si sente un po’ come nella Tavola Rotonda di Artù, il “primo fra uguali”. Si procede per virtù conquistata, e non conferita dal fuligginoso potere dell’anello di qualche Signore. Anche la rete, alla fine, ha le sue gerarchie, ma sono di tipo diverso. Sono quelle che nascono dal plauso dei suoi cittadini. Lo ius deriva dall’attendibilità e dal riscontro libero di ciò che divulghiamo. Forse è la prima elezione…davvero “diretta”. Ovvio, ogni democrazia ha i suoi difetti. Perché richiede una mostruosa maturità. E tuttavia, tuttavia la rete sta dimostrando di saper usare bene la democrazia di cui gode. Con tanti inciampi, ovviamente. Ma se non caschi non impari mai a camminare. 

Interessante, poi, notare come sul web chiunque se la tira un po’ viene immediatamente messo alla gogna. Come quei re ridicoli di alcune fiabe, quelli che arrivavano pieni di oro zecchino che nascondeva la ruggine del ferro che pulsava nel loro cuore.
C’è una cosa che non smette mai di colpirmi: la differenza di stile tra chi sta anche in rete e chi invece la usa solo per le sue ricerche.
Prendiamo i giornalisti, una vera casta nel nostro paese. Specie quelli che lavorano nei quotidiani oppure alla Rai, con il suo mondo chiuso, autoreferente, come San Marino e il Vaticano, le altre due “città” fuori della nostra repubblica. Ecco, i giornalisti, di solito, hanno la puzzetta sotto il naso. Anzi, a essere onesti, più che di puzzetta sarebbe corretto parlare di tanfo…

Sono spesso obliqui, distratti.
Se li contatti la comunicazione assume l’enfasi e le difficoltà di un’udienza papale. Aspetti, ora non ho tempo, Be’ vediamo, richiami domani, Chi le ha dato il mio numero?, Provi un po’ a mandarmi una mail… 
I giornalisti e i comunicatori che si muovono in rete, invece, ti rispondono subito. Ti danno del tu, sono cordiali, disponibili. Sanno che questo spazio digitale usa il principio del dono, dell’offerta. E sanno che quello che tu regali ti torna indietro. Non sono gelosi dei loro orticelli, anzi ti ci fanno entrare e condividono i profumi del loro basilico, ti regalano i fiori freschi appena innaffiati.
Mi è successo con Pino Scaccia, con Cristopher Allbritton, con Roy Peter Clark e tanti altri. Più generosi dei colleghi della carta stampata, sono privi delle nevrastenie da divetto. Semplici, diretti, immediati. Come il web. 

Ho ricevuto le risposte alle interviste nel giorno stesso in cui ho inviato le domande. Neanche il fuso orario ha fermato il flusso rapido di questa comunicazione… 

Capisco che per chi ha sempre scritto sulla carta stampata il mondo digitale all’inizio non è così immediato. Venivo dal quel mondo anche io. Avevo sempre lavorato nelle riviste culturali. Ricordo che la prima cosa che facevo, quando arrivava il numero nuovo dalla tipografia, era quel gesto antico, che mi porto dietro fin da bambina, fin da quando rubavo i libretti di fiabe nella libreria di mio nonno: aprivo le pagine e ci infilavo dentro il naso, aspirando con godimento quell’odore inconfondibile, afrodisiaco prezioso dell’intelletto. 

Il video non ha odore (per ora) né inchiostro. Non gode dell’esperienza tattile provocata dal dito che sfiora la carta. Ma è altrettanto efficace. Ci sono, in quel mondo, altre esperienze da percepire. Ma, si sa, le pantofole mentali sono difficili da mettere via. E ogni novità richiede di camminare scalzi. Figuriamoci quelle di un mezzo digitale che arriva a sconvolgere le abitudini di chi ha superato i quaranta e quindi non è cresciuto, come i ragazzini, cpn la facilità dello smanettamento (o “spippolamento”, come dice il mio amico Lorenzo) in rete. Ci vuole un po’, in questi casi, per imparare a muoversi in un contesto così impalpabile rispetto alla fisicità della carta. Somiglia a una sorta di attraversamento del Mar Morto, un passaggio nelle Acque simboliche che genera un cambiamento. Ed è radicale. Perché una volta che si usa il web, non si è più quelli di prima. 

Pensiamo solamente alla scrittura, al blog in cui ogni giorno (o due-tre volte alla settimana) usiamo la scrittura per comunicare. Il pensiero vive una dimensione sua, che muta quando invece si incarna nella parola che ne fissa, per così dire, la qualità. Non a caso non sempre chi è un bravo oratore è anche un bravo scrittore. Dipende. 
Ma l’uso del blog genera confidenza con quella contrazione-espansione del pensiero che è la parola. Ci rende più sensibili all’articolazione di ciò che pensiamo. Perché scriviamo. Perché fissiamo.
Non importa quale tipo di blog stiamo usando. Possiamo scrivere dei punti neri sullla pelle grassa del nostro viso o commentare il Live Earth di Al Gore. Stiamo comunque scrivendo. 

Con una differenza notevole rispetto al diario classico, quello che nascondevamo e che la mamma puntualmente trovava (almeno la mia, accidenti). Quel diario rimaneva un fatto isolato. La scrittura del blog, invece, finisce in rete. Questa condizione comporta una distinzione netta, che sta proprio nel pubblico. Anche se ce ne freghiamo del giudizio altrui, comunque manteniamo la consapevolezza di un orizzonte allargato. Il post è come un messaggio in una bottiglia, affidato all’oceano di Internet. Forse nessuno lo leggerà, forse galleggerà alla deriva. Oppure qualcuno aprirà la bottiglia e condividerà il nostro pensiero, aggiungendo, togliendo, criticando. Non importa. Ma si crea così un reticolato, un’interazione continua, come un gioco di specchi e rimandi. 

I famosi “sei gradi di separazione” nel web intensificano la loro attività, riducendo l’estensione dell’attimo in cui si abbatte la distanza fra noi e un altro essere umano. Da pari a pari, dicevo prima.
E questa è la scommessa più bella...