Le ho già accennato che a mio avviso è già di per sé un nonsenso voler giocare a scacchi contro se stesso; ma perfino quest'assurdità avrebbe pur sempre una minima possibilità con una vera scacchiera davanti agli occhi, perché la scacchiera con la sua concretezza permette in fondo una certa distanza, un'estrinsecazione materiale. Davanti a una vera scacchiera con veri pezzi si possono intercalare pause di riflessione, si può sedere in modo puramente fisico ora da una parte, ora dall'altra del tavolo e in tal modo considerare la situazione ora dal punto di vista del nero, ora da quello del bianco.

Ma essendo costretto, com'ero io, a proiettare queste battaglie contro me stesso o, se vuole, con me stesso in uno spazio immaginario, dovevo per forza ritenere chiaramente nella mia coscienza la situazione esistente di volta in volta sulle sessantaquattro case, e calcolare inoltre non solo la situazione del momento, ma anche le possibili mosse ulteriori dei due partners, e quindi - so come suona assurdo tutto ciò - immaginarmi sempre quattro o cinque mosse in anticipo per ognuno dei due miei Io, il bianco e il nero, moltiplicate per due, per tre, no, per sei, per otto, per dodici.

Dovevo - mi perdoni se le chiedo di soffermarsi su questa follia - giocando nello spazio astratto della fantasia, calcolare in anticipo come giocatore bianco quattro o cinque mosse e altrettante come giocatore nero, per combinare in anticipo tuttel e situazioni che potevano svilupparsi, in certo modo con due cervelli, col cervello bianco e col cervello nero (...). Ma dal momento in cui iniziai a giocare contro me stesso, cominciai senza volerlo a provocarmi. Ognuno dei miei due Io, l'Io nero e l'Io bianco, dovevano gareggiare fra loro e ognuno per proprio conto caddero in preda a un'ambizione, un'impazienza di vincere, di avere la meglio; come Io nero tremavo a ogni mossa, nell'incertezza di ciò che avrebbe fatto l'Io bianco. Ognuno dei miei due Io trionfava se l'altro commetteva un errore, e al tempo stesso si amareggiava per la propria incapacità.

(Stefan Zweig, Novella degli scacchi)






I vostri filosofi hanno sentenziato che l’anima è nella testa, mentre la maggior parte degli uomini muore senza che quella abbia occupato quella sede, e la sua prima residenza è nei piedi.»
«Nei piedi!» interruppe il sultano «questa è proprio l’idea più stramba che abbia mai sentita.»
«Sì, nei piedi,» riprese Mirzoza […] «e io dimostrerò che tutte le prove immaginabili della sensibilità concorrono a collocare l’anima nel luogo che io le assegno.» […] «Per questo fatto mi appello all’esperienza, e forse qui potrò gettare le prime fondamenta d’una metafisica sperimentale. […] Il bimbo annuncia la sua formazione proprio con i piedi. Il suo corpo, la testa, le braccia sono immobili nel seno della madre; ma i suoi piedi si allungano, si piegano e manifestano la sua esistenza e forse anche le sue necessità. Quando è sul punto di nascere […] i piedi hanno la parte principale, e spingono davanti a loro il resto del corpo. […] Quando il bimbo è nato, è ancora nei piedi che avvengono i principali movimenti. […] La testa è un blocco di cui si fa tutto quello che si vuole; ma i piedi sentono, scuotono il giogo e sembrano offesi della loro mancanza di libertà. Quando il bimbo è in grado di star ritto, i piedi fanno mille sforzi per muoversi. […] Dove si rivolgono tutti i pensieri del bambino, e quali sono i suoi piaceri, quando, più saldo sulle gambe, i suoi piedi hanno acquistato l’abitudine di muoversi? Sono quelli di esercitarli, d’andare, venire, correre, saltare, balzare. Questa turbolenza ci piace, è per noi un segno di prontezza di spirito. […] Volete rattristare un bambino di quattro anni? Fatelo stare seduto per un quarto d’ora o tenetelo prigioniero fra quattro sedie: sarà preso da malumore e da dispetto; così voi non gli avete soltanto tolto l’esercizio delle gambe, voi tenete prigioniera la sua anima. L’anima rimane nei piedi sino all’età di due o tre anni; a quattro essa occupa le gambe; a quindici le ginocchia e le cosce. […] Ma se la sua sede è variabile nell’infanzia e nella giovinezza, perché non dovrebbe variare durante tutta la vita? […] Essa procede, viaggia, lascia una parte, vi ritorna per lasciarla ancora. […] Questo varia secondo l’età, il temperamento, le congiunture, e di lì nascono la differenza dei gusti, la diversità delle tendenze e quella dei caratteri.»

(Denis Diderot, I gingilli indiscreti)
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Un uomo viveva in una casupola tonda con una finestra tonda e un giardinetto a triangolo. Non lontano da quella casupola c'era uno stagno pieno di pesci. Una notte l'uomo fu svegliato da un rumore tremendo e uscì di casa per vedere cosa fosse accaduto. E nel buio si diresse subito verso lo stagno.
Prima l'uomo corse verso sud, ma inciampò in un gran pietrone nel mezzo della strada; poi, dopo pochi passi, cadde in un fosso; si levò; cadde in un altro fosso, si levò, cadde in un terzo fosso e per la terza volta si rimise in piedi.
Allora capì di essersi sbagliato e rifece di corsa la strada verso nord. Ma ecco che gli parve di nuovo di sentire il rumore a sud e si buttò a correre in quella direzione. Prima inciampò in un gran pietrone nel bel mezzo della strada, poi dopo pochi passi, cadde in un fosso, si levò, cadde in un altro fosso, si levò, cadde in un terzo fosso e per la terza volta si rimise in piedi. Il rumore, ora lo avvertiva distintamente, proveniva dal'argine dello stagno. Si precipitò e vide che avevan fatto un grande buco, da cui usciva tutta l'acqua insieme con i pesci. Si mise subito al lavoro per tappare la falla, e solo quando ebbe finito se ne tornò a letto.
La mattina dipoi affacciandosi alla finestrella tonda che vide? Una cicogna!
Lo avevano imbrogliato, l'ometto, e gli avevano messo tra i piedi tutti quegli ostacoli: «Quanto mi toccherà correre su e giù?» si sarà detto. Che nottata di disdetta! E si sarà chiesto il perchè di tante tribolazioni: non lo poteva sapere davvero che quel perchè era una cicogna.
Questo buco dove mi muovo appena, questa fossa buia in cui giaccio, è forse il tallone di un uccello? Quando il disegno della mia vita sarà completo, vedrò, o altri vedranno una cicogna?

(Karen Blixen, La mia Africa)





Pensate quale avvenimento stupefacente sarebbe quello! Come inconcepibile, nello stato presente della nostra sapienza nazionale. Che si debbano elevare i nostri contadini ad un esercizio di libri anziché di baionetta! – Organizzare, manovrare, mantenere con paga e buoni generali, eserciti di pensatori, invece di eserciti di assassini; trovare divertimento nazionale tanto in sale di lettura che in tiri a segno; dare premi tanto per aver indovinato esattamente un fatto, che per uno schizzo di piombo su un bersaglio. Che idea assurda sembra, messa in parole, che la ricchezza dei capitalisti di nazioni civilizzate vada mai per il sostenimento della letteratura invece che della guerra.

(John Ruskin, Sesamo e gigli



«Intanto calava la sera, e qualche persiana in faccia a loro era stata tirata su. I passanti si fecero più numerosi. Suonarono le sette.
Le loro parole scorrevano come una fonte inesauribile, le osservazioni si succedevano agli aneddoti, le intuizioni filosofiche alle considerazioni personali. [...] Ognuno ascoltando l'altro ritrovava delle parti dimenticate di se stesso. E per quanto fosse per loro trascorsa l'età delle emozioni ingenue, provavano un piacere nuovo, una specie di allargamento del cuore, il fascino che ha un affetto al suo inizio.
Venti volte s'eran alzati, s'eran rimessi a sedere e avevan fatta tutta la lunghezza del boulevard, dalla chiusa a monte, ogni volta con l'intenzione di andarsene, non avendone la forza, trattenuti da un incantesimo»

(Flaubert, Bouvard e Pècuchet)
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ATTO PRIMO, scena quinta

MATTO: Se il cervello dell'uomo fosse nei suoi calcagni, non correrebbe il rischio di avere i geloni?
LEAR: Sicuro, ragazzo mio.
MATTO: Allora, ti prego, sta' allegro: il tuo senno non anderà in ciabatte.
LEAR: Ah! ah! ah!
MATTO: Vedrai che l'altra tua figliuola ti avrà a sangue; poiché, sebbene essa somigli a questa, come una mela selvatica somiglia ad una mela buona, pure io posso dire quel che posso dire.
LEAR: Che cosa puoi dire, ragazzo?
MATTO: Che essa sarà dello stesso gusto di questa, come una mela selvatica ha lo stesso sapore di un'altra mela selvatica. Sai dirmi perché il naso sta proprio in mezzo alla faccia?
LEAR: No.
MATTO: To', perché gli occhi stiano uno da una parte del naso, e l'altro dall'altra: sicché ciò che non si può fiutare col naso, si possa spiare con gli occhi.
LEAR: Io sono stato ingiusto con lei...
MATTO: Sai dire come un'ostrica si fa il guscio?
LEAR: No.
MATTO: Ed io nemmeno; ma ti so dire perché una chiocciola ci ha la casa.
LEAR: Perché?
MATTO: To', per tirarci dentro la testa; e non per darla via alle sue figliuole, e lasciar le sue corna senza tetto.
LEAR: Voglio dimenticare il mio affetto... Un padre così amoroso! Son pronti i miei cavalli?
MATTO: I tuoi asini sono andati ad occuparsene. La ragione per la quale le sette stelle non sono più di sette, è bellina.
LEAR: Perché non sono otto?
MATTO: Già, precisamente. Tu potresti riuscire un buon matto.
LEAR: Riprenderlo per forza!... Mostruosa ingratitudine!
MATTO: Zio, se tu fossi il mio matto, ti farei bastonare, perché tu sei vecchio prima del tempo.
LEAR: Che vuoi dire?
MATTO: Tu non avresti dovuto farti vecchio, prima d'esser diventato savio.
LEAR: Non permettere ch'io diventi pazzo, oh! pazzo no. benigno cielo!
Conservami la mia ragione: io non voglio essere pazzo!...

(Re Lear, Shakespeare)
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