La paura è uno dei sintomi del nostro tempo.
Tanto più essa suscita costernazione in quanto è succeduta a un'epoca di grande libertà individuale, in cui la stessa miseria, per esempio quella descritta da Dickens, era ormai quasi dimenticata.
In che modo è avvenuto questo passaggio? Se volessimo scegliere unaÈ data fatidica, nessuna sarebbe più appropriata del giorno in cui affondò il Titanic.
Qui luce e ombra entrano bruscamente in collisione: l'hybris del progresso si scontra con il panico, il massimo confort con la distruzione, l'automatismo con la catastrofe che prende l'aspetto di un incidente stradale.
È un fatto che i rapporti tra i progressi dell'automatismo e quelli della paura sono molto stretti: pur di ottenre le agevolazioni tecniche, l'uomo è infatti disposto a limitare il proprio potere di decisione. Conquisterà ogni sorta di vantaggi che sarà costretto a pagare con una perdita di libertà sempre maggiore.
Il singolo non occupa più nella società il posto che l'albero occupa nel bosco: egli ricorda invece il passeggero di una veloce imbarcazione che potrebbe chiamarsi Titanic o anche Leviatano.
Fintanto che il tempo si mantiene sereno e piacevole, il passeggero quasi non si accorge di trovarsi in una situazione di minore libertà: manifesta anzi una sorta di ottimismo, un senso di potenza dovuto alla velocità. 
Ma non appena si profilano all'orizzonte iceberg e isole dalle bocche di fuoco, le cose cambiano radicalmente. 
(...). Dove l'automatismo guadagna terreno e si avvicina alla perfezione, il panico si fa ancora più tangibile: in America, ad esempio, esso trova il terreno che gli è più propizio, e si diffonde lungo reti più veloci del fulmine. Già è un indice di angoscia il bisogno di sentire le notizie più volte al giorno; la fantasia si dilata e, girando sempre più vorticosamente su se stessa, finisce per paralizzarsi. 
Tutte quelle antenne su città gigantesche fanno pensare a capelli che si rizzano sul capo, sembrano evocare contatti demoniaci. 

Ernst Jünger, Trattato del ribelle, Adelphi







Plimpton:
Si ricorda il momento preciso in cui decise di diventare scrittore?

Hemingway:
No, ho sempre voluto fare lo scrittore. 

Plimpton:
Philip Young, nel libro che le ha dedicato, ipotizza che lo choc di quando nel 1918 lei fu ferito da un colpo di mortaio ha avuto una forte ripercussione sulla sua carriera di scrittore. 
Però ricordo che a Madrid lei accennava a questa teoria dandovi ben poco credito perché, diceva, l'artista non acquisisce un bagaglio di conoscenze ma, in senso mendeliano, le eredita.

Hemingway:
Evidentemente, quell'anno a Madrid non ero granché lucido. Meno male che mi sono limitato a fare qualche accenno alla teoria del trauma di Young. Forse, in quell'occasione, con la commozione cerebrale e la frattura al cranio mi sono lasciato scappare affermazioni davvero azzardate.
Le dissi, lo ricordo bene, che ritenevo che l'immaginazione fosse il risultato di esperienze ereditate, ancestrali.
E credo che tra le chiacchiere post-trauma non suonasse affatto strano, ma in altri contesti le cose cambiano. Comunque sia, fino al prossimo incidente, lascerei stare, d'accordo? La ringrazio comunque per non aver snocciolato i nomi dei parenti che avevo tirato in ballo. Il divertente, quando si parla, è fare dei tentativi, ma è meglio non mettere per iscritto teorie così infondate, perché poi bisogna difenderle. 
Può darsi che certe cose si dicano per vedere se ci si crede davvero. Per quanto riguarda la sua domanda, l'effetto delle ferite può variare molto. Le ferite più lievi, quelle che non intaccano le ossa, hanno conseguenze limitate, qualche volta danno anche sicurezza. Ma quelle che danneggiano le ossa o i nervi non hanno nessun effetto positivo né sugli scrittori, né su chiunque altro.

Plimpton:
Secondo lei qual è la migliore preparazione intellettuale per un aspirante scrittore?

Hemingway: Diciamo pure uscire di casa e impiccarsi, perché scrivere bene è quasi impossibile. Poi, se qualcuno lo stacca dalla corda, allora, per tutta la vita, il poveretto dovrebbe costringersi a scrivere al meglio. ma almeno avrà la storia dell'impiccagione con cui cominciare.

Plimpton:
Che ne pensa degli scrittori che hanno intrapreso una carriera accademica? Crede che la maggiro parte degli scrittori insegnanti abbia trovato un compromesso con il lavoro letterario?

Hemingway:
Dipende da quel che intende con compromesso. Intende come quando una donna ha la reputazione compromessa?  Oppure intende il compromesso dello statista, o il compromesso che si fa con il verduriere o il sarto, accordandosi che magari li si pagherà un po' di più ma in ritardo? Chi scrive e insegna dovrebbe essere in grado di fare tutt'e due le cose, e molti scrittori hanno dimostrato che è possibile. 
Io so che non ne sarei capace, e ammiro quelli che invece ci riescono. 
Però penso che la vita accademica possa limitare l'esperienza esterna e dunque la conoscenza del mondo. La conoscenza richiede molta responsabilità da parte dell'autore e rende la scrittura più difficile. 
Cercare di scrivere qualcosa che abbia un valore permanente comporta un impegno a tempo pieno, anche se la scrittura vera e propria occupa solo alcune ore al giorno. Si può paragonare lo scrittore a un pozzo. I pozzi, come gli scrittori, possono essere di vario tipo, ma l'acqua deve essere buona, e anziché svuotare il pozzo del tutto e poi aspettare che si riempia di nuovo, bisogna tirare su l'acqua un po' per volta, con regolarità, senza prosciugare la falda. Forse non ho risposto precisamente alla sua domanda, ma l'argomento non era poi così interessante.

Hernest Hemingway, Il principio dell'iceberg - intervista sull'arte di scrivere e di narrare, Il Melangolo





E alla cattiva abitudine di parlare di sé e dei propri difetti bosgna aggiungere l'altra, che fa blocco con essa, di denunciare negli altri difetti esattamente analoghi ai nostri. Ora, si parla sempre di questi difetti, come se fosse un modo di parlare di sé, indiretto, e nel quale al piacere d'assolvere si accompagna quello di confessare. D'altronde, sembra che la nostra attenzione, sempre attratta da ciò che ci caratterizza, lo noti negli altri più di qualsiasi altra cosa. Un miope dice di un altro: - Ma se non vede più lontano del suo naso! -; un malato di petto mette in dubbio l'integrità polmonare del più robusto; uno che è poco pulito parla soltanto dei bagni che gli altri non fanno; uno che manda cattivo odore sostiene che gli altri puzzano; un marito tradito vede soprattutto mariti traditi; una donna leggera, don eleggere; lo snob, degli snob. 
E poi, ogni vizio, come ogni professione, esige e sviluppa una scienza speciale che si compiace di far mostra di sé. L'invertito fiuta gli invertiti, il sarto invitato in società non ha ancora scambiato parola con te e già ha valutato la stoffa del tuo abito e le sue dita ardono di palparne le qualità, e, se dopo alcuni istanti di conversazione, tu chiedessi a un odontoiatra la sua vera opinione su di tem ti direbbe quanti denti cariati hai. Non c'è nulla che gli sembri più importante, e, a te che hai osservato i suoi, più ridicolo. Ma non solo quando parliamo di noi crediamo gli altri ciechi; ci omportiamo come se fossero tali. 
Per ognuno di noi esiste un dio speciale che gli nasconde o gli promette l'invisibilità del suo difetto, così come chiude gli occhi e il naso delle persone che non si lavano sull'orlatura di sporcizia che hanno agli orecchi e sull'odor di sudore che mandano alle ascelle, e le persuade che possono impunemente portare a spasso l'una e l'altra in società senza che nessuno se ne accorga.
E coloro che portano o regalano perle artificiali si figurano verranno prese per autentiche. 

Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, Einaudi





Gli inizi ricominciano sempre, e non sono mai finiti. Nemmeno quando saremo finiti noi stessi. Anche il finire non finisce mai. È una spirale, non un cerchio. Tutto finisce, tutto anche ritorna. In questa circolarità o, piuttosto, come ho detto, spirale è anche il senso del ritorno. Musica che non disturba il silenzio […] Considero fatali, cioè necessarie, certe coincidenze. Quest’ultimo ritorno è dunque nuovo rispetto ad altri miei ritorni […] Certi ritorni sono reali e impossibili insieme. Ricordo di aver detto che sono esaltanti, ma anche dolorosi. E assurdi: perché è come voler «abitare in una metafora».
Perché dunque l’ultimo?
L’ultimo può sempre diventare il primo. Questo è il ritmo. Solo così il tempo può diventare musica.
Per ritornare, il tempo deve essere perduto. Solo ciò che è stato perduto ritorna. Solo ciò che si è perduto sarà ritrovato. È una legge del cuore o del mondo?
Si perde ciò che si è amato. È la legge. Ma solo ciò che si è perduto, ritorna.

Lalla Romano, Ritorno a Ponte Stura, Einaudi 2000.