Clifford Chase, Winkie, Einaudi Stile Libero
Il processo del secolo, il popolo degli Stati Uniti d'America contro l'orsetto Winkie.
Il primo romanzo di Clifford Chase tocca un tema scottante, quello del terrorismo. Lo fa attraverso una storia a metà tra incubo e fiaba, sospesa nell'incanto dell'impossibile che si fa realtà.
Il protagonista è Winkie, un orsetto che dopo anni di fedele servizio in cui viene amato, coccolato, poi trascurato dai bambini che crescono salvo poi ritrovarsi di nuovo fra le braccia dei loro figli, all'improvviso si trova a vivere il suo desiderio più grande, quello di diventare anche lui una creatura vivente. Tenerissime, commoventi le pagine che raccontano la vita di famiglia vista attraverso gli occhi di Winkie, che tutto osserva dalla sua prospettiva singolare in cui alterna momenti di felicità a momenti di alienazione, completamente in balìa di eventi e persone.
Finché un giorno Winkie riesce a vivere finalmente il suo sogno. Trova l'amore, che però gli viene rubato.
Inzia così un percorso paradossale fatto di equivoci tragici. Winkie viene arrestato e processato per terrorismo. Nessuno sembra accorgersi che si tratta solo di un piccolo, buffo orsetto di pelouche.
Un romanzo tremendo e allo stesso esilarante. La parodia di Chase prende di mira la caccia alle streghe in un non celato intento dissacrante che fa dell'America un luogo epilettico, segnato da ottusità e nevrastenie degne di un manuale di psichiatria.
Momenti di divertimento si alternano ad atmosfere tragiche, disperate. Winkie è metafora di un altro da sé che diventa minaccia, nemico. La lettera scarlatta che sembra segnare il suo destino è incisa dall'incapacità di confrontarsi con i propri incubi e le proprie paure.
L'autore mette in scena una vicenda simbolica attingendo alle memorie d'infanzia e facendo del suo orsetto di pelouche il protagonista di una coinvolgente fiaba per adulti.
Un bellissimo romanzo d'esordio, che non merita assolutamente di passare inosservato.
(Alina Padawan)
David Kemp - Lawrence Levi, Dizionario snob del cinema, Sellerio
Avete sempre desiderato sapere cos'è l'aspect ratio di un film? O magari avete passato notti insonni a interrogarvi sul significato della "Teoria dell'autore”? O più semplicemente avete bisogno di un prontuario di notizie assolutamente esclusive per zittire chiunque osi mettere in discussione la vostra competenza cinefila? Bene, Il Dizionario snob del cinema farà certamente al caso vostro.
Si tratta di un grazioso “bignami” per non prendere sul serio chi si prende troppo sul serio, con un'ottima
traduzione dalla lingua inglese che riesce appieno a rendere tutta l'ironia del testo originale. Da segnalare la presenza di una sezione finale di Contenuti speciali, in cui si dispensano consigli su come far riferimento a taluni storici personaggi nel corso di una conversazione con altri snob.
Tuttavia, come ci informano gli stessi autori nella esaustiva nota intrtoduttiva, in questo libro non troveremo mostri sacri come Fellini o Bergman, perché “verosimilmente il cinefilo snob sa un sacco di cose riguardo i cineasti in questione [...] ma di norma li sfotte senza pietà, considerandoli luoghi comuni del borghesuccio che vuole fare l'acculturato”.
L'essere esclusivi passa ovviamente anche attraverso il saper cogliere ciò che di artistico si cela dietro un film messicano sul wrestling...
Ma non lasciatevi ingannare dal tono ironico del testo, il volumetto è documentatissimo, puntuale e preciso in ogni riferimento e citazione, e non mancherà di soddisfare chi è alla ricerca di curiosità poco note sul mondo del cinema... snob, ovviamente.
(F.zac)
Sandra Petrignani, Ultima India, Neri Pozza Editore
Cosa succede quando una donna occidentale cerca di capire i misteri dell'India? Se questa donna è anche una giornalista la sfida si fa tagliente.
Accade in Ultima India, diario di viaggio di Sandra Petrignani, firma brillante di Panorama e scrittrice che da sempre cerca e trova le suggestioni di atmosfere narrative in cui traslocare le sue riflessioni.
Ci riesce, in questo libro che allo stesso tempo è un taccuino di viaggio, un reportage giornalistico e un diario personalissimo in cui il percorso si fa anche bilancio di emozioni presenti e passate, inquietudini, domande che reclamano una risposta che scivoli oltre i dogmi sociali della nostra civiltà.
Non c'è nessuno spazio, in queste pagine, per la superficialità omologata del turista che osserva dalla vertina, come si fa con un acquario, nessuna tentazione per le cronache facili. La Petrignani è una viaggiatrice vera. Come lo fu Pasolini, che ci regalò il mai dimenticato "L'odore dell'India", oppure Bruce Chatwin. Come lui, a un certo punto la Petrignani si domanda "Che ci faccio qui?". Cerca, inquieta.
E il viaggiatore vero scava, esita su dettagli minimi eppure eloquenti, simbolici, che trattengono intere vicende.
Come nell'episodio drammatico in cui un cucciolo di cane in mezzo alla strada si ciba dei resti di un fratellino, o nelle smorfie di Ayyappam, il bambino che le fa da guida in un paese enigmatico, attraversato da meraviglie e grandi dolori.
Una galleria di personaggi e paesaggi ritratti con uno stile rapido, nervoso, in cui descrizioni e sensazioni si rincorrono, si mescolano, si confondono per poi separarsi di nuovo.
Quella della scrittrice è anche un'avventura, fra disincanto e tremori, che punta alle radici spirituali di un'India che raramente solleva il velo di Maya, ma che allo stesso tempo si fa improvvisamente generosa con chi ne scalfisce - per vocazione - la superficie. "Una volta tanto avevo potuto fare un regalo, non elemosina. In cambio ho avuto uno sguardo lungo dove stava acquattata una singolare conoscenza, come un amore speciale conservato da tanto tempo per essere donato al momento giusto e offrire e prendere la felicità improvvisa di un conforto reciproco. Non ci incontreremo mai più, ci incontreremo in continuazione".
Un libro che non è solo narrativa di viaggio ma itinerario alla scoperta di sé, misura delle geografie di due culture distanti i cui perimetri a volte si fanno più fragili. L'uomo occidentale di fronte all'India si smarrisce, si turba, si irrita oppure si esalta, rapito dagli esotismi di un misticismo impenetrabile. La Petrignani invece cerca di mantenersi lucida, vigile, allineando il rigore della cronista agli spazi interiori in cui il narratore si abbandona nella risacca delle sue emozioni.
(effepa)
“Eravamo irritabili e strapagati. Le nostre giornate non promettevano nulla. […] Avevamo perso e la nostra stupidità ci rendeva vulnerabili alle critiche sussurrate, e all’orribile prospettiva di essere il prossimo nella lista dei dipendenti da licenziare”.
E poi siamo arrivati alla fine è il romanzo d'esordio di Joshua Ferris, una delle due prime uscite per i tipi Bloom della Neri Pozza. L'autore dà vita a un esperimento narrativo importante: raccontare la vita contemporanea, gli affetti, il successo, la malattia, la morte, a partire da un luogo fondamentale: l’ufficio.
La voce narrante è quella del gruppo, mai di un singolo, un “noi” che vive rimodulandosi tra licenziamenti e dipartite, morti, promozioni e sconfitte, che attraversa frastornato i giorni che passano nel Paese del folle sogno americano, “…follia puntellata dal sogno democratico”.
Joshua Ferris riesce a nascondere i grandi drammi metropolitani dei nostri tempi tra le pieghe di una storia solo apparentemente scanzonata, puntellata dalle nevrosi di personaggi che intrecciano le loro vite nella grande agenzia pubblicitaria sulle rive dell’immenso lago di fronte a Chicago, dove la competizione professionale e lo spettro del licenziamento aleggiano costanti tra open space e computer, cubicoli, stampanti, colpi bassi e sedie rubate.
Ecco allora che pagina dopo pagina, dietro gli intrighi e le gelosie, si arriva a percepire il suono delle nostre stesse vite che scorrono, come ha sottolineato un grande fan del libro: Nick Hornby. Ferris ha realmente lavorato come copywriter di un'agenzia pubblicitaria, e la minuziosità descrittiva della vita dell'agenzia, così come la profonda verità dei tipi umani della storia, stanno a testimoniarlo.
(Fabio Zaccaria)
Da rileggere:
Olivier Adam, Passare l’inverno, minimum fax, marzo 2006
Olivier Adam è un giovane talento della narrativa francese, nato nella banlieue parigina e cresciuto in un immaginario sospeso tra la filmografia americana e l’estetica pop.
Così, durante la notte di Capodanno la pioggia batte fitta sul parcheggio vuoto della pompa di benzina. All’interno, sugli scaffali, occhieggiano, chiassose, buste di patatine, caramelle, giocattoli, lattine di Coca Cola, note di colore che imbrattano l’esistenza grigia e sola della donna alla cassa.
E ancora, in una notte di Natale, un’altra donna sola sbriga le ultime pratiche lassù, in un ufficio al quarantasettesimo piano di un grattacielo, che si affaccia su un’aiuola di cemento grigio e freddo come questo inverno. Altre volte, camminando per strada, si viene attratti dalle grandi insegne luminose o dagli inconfondibili effluvi globalizzati di un Mc Donald’s. Il fumo di mille sigarette inonda gli ambienti in cui Adam fa vivere i propri personaggi, ma non c’è traccia dei tradizionali bistrot parigini; le stanze sono sature di rapporti claustrofobici, agonizzanti e non si fumano Gitanes o Gauloises, ma Camel o Lucky.
Fortunatamente, l’irresistibile fascino del vuoto ha sedotto l’immaginario europeo non meno dell’estetica pop di Andy Warhol.
“Tutto è nulla, solido nulla” scriveva Leopardi nello Zibaldone . Il dolore scaturisce dal nulla e si tuffa nel nulla . Le esistenze dei personaggi di Adam sono sospese nel vuoto, prive di temporalità. Questi nove racconti sono dei fermo immagine, fotogrammi scattati su esistenze liquide che defluiscono negli infiniti rivoli di una Storia senza più direzione.
“E’ martedì, e io non ci sono più”.
E ancora “ Mi sento vuoto. Ci penso di continuo, a questo vuoto dentro. Mi dico che se potessi sondarmi in profondità, aprirmi la testa e il cuore e guardarci dentro, non vedrei nulla. Niente. Vento, deserto, una distesa di ghiaccio dove non si muove niente.”
Come in un monocromo di Yves Klein, il pittore del vuoto, questi racconti di Adam dipingono l’anima senza spiegazioni, potremmo dire senza parole. Poi, l’autore affonda le mani nel vuoto fino a sentirlo come entità solida; è allora che “Passare l’inverno” diventa una stilettata inferta nelle viscere dell’anima con un pugnale di ghiaccio; uno spasmo lo scioglie in pioggia che cade sul cuore, tamburellando, lieve, il ritmo della vita.
(Bianca Casadei)
Antonio Tabucchi, Sostiene Pereira, Feltrinelli, 1995
Sostiene Pereira di Antonio Tabucchi, rappresenta una straordinaria parabola della coscienza individuale e sociale, che si materializza nella vittoria, da parte del protagonista, su una comoda e impermeabile rassegnazione. Ambientato nel Portogallo del salazarismo, il romanzo prende quota di pari passo con il risveglio del personaggio ‘Pereira’, che inizialmente appare del tutto fossilizzato in una esasperante ripetitività quotidiana e in una profonda solitudine. Il linguaggio semplice e diretto fa sì che la lettura proceda tutta d’un fiato, e, con essa, la consapevolezza che qualcosa, pur se lentamente , sta cambiando nel cuore del protagonista. L’evento che determina la sua metamorfosi è l’incontro con una coppia di antifascisti, che lui stesso coprirà, svelando alla fine le nefandezze di una polizia corrotta e violenta, sempre collusa con il potere. Pereira è un giornalista, ma scoprirà di esserlo davvero soltanto quando troverà il coraggio di denunciare proprio attraverso la sua penna. Il suo punto di vista cresce continuamente di intensità, senza che il lessico del romanzo conceda nulla alla retorica né ad inverosimiglianze di ogni tipo. Una vicenda tutta umana, drammatica, intima e universale insieme, quella del ‘Pereira’ e dei suoi amici rivoluzionari, che ci incita a non abbassare mai la testa di fronte all’ordine costituito. Probabilmente il miglior Tabucchi di sempre: preciso, puntuale, mai banale.
(Luigi Di Donato)
Haruki Murakami, La fine del mondo e il paese delle meraviglie, Baldini Castoldi editore
“Nessuno può danneggiare questa muraglia. Né scalarla. Perchè è perfetta. Se lo metta bene in testa: da qui nessuno può uscire. Di conseguenza non si faccia venire idee sciocche. Capisco anch’io che è dura, per lei”, aggiunse dandomi una pacca sulla schiena con la sua grossa mano, “ma ci sono passati tutti. Deve portare pazienza. Dopo verrà la salvezza. E allora anche lei non conoscerà più l’angoscia né il dolore. Sparirà tutto. Anche il senso del provvisorio non significherà più nulla. Dimentichi la sua ombra. Qui è la fine del mondo, da qui non si va da nessuna parte”. [...] Il problema era che non riuscivo assolutamente a ricordarmi né la ragione né lo scopo per cui avevo abbandonato il mio vecchio mondo ed ero venuto in questo posto. Qualcosa, qualche forza mi ci aveva portato. Quale straordinaria e assurda energia. Così avevo perso la mia ombra e i miei ricordi, e adesso stavo per perdere il cuore".
Cosa hanno in comune il paese delle meraviglie, o meglio una Tokyo futura ma non troppo, e la cittadina murata La Fine Del Mondo?
Un cibermatico che lavora per il Sistema si trova coinvolto in un pericoloso gioco di potere. I nemici del Sistema, i Semiotici, lo vogliono; un vecchio scienziato e la sua grassa nipote lo ingaggiano. Ignaro delle sue potenzialità l’uomo cerca di sopravvivere sia in un mondo che nell’altro. Le storie dei due mondi procedono in parallelo, indicandosi ma senza mai toccarsi, in un tempo che sembra circolare, dove il dopo di un mondo è il prima dell’altro e viceversa. Al termine le due storie sembrano incontrarsi, ma come in un vortice di giri concentrici, si trovano ancora una volta sfasate, su piani diversi.
Un romanzo in cui il fantastico che può scaturire dalla mente di un uomo gareggia con il “fantastico” della realtà.
Le citazioni letterarie abbondano, a partire dal titolo…
(Simona Taborro)