Dossier: Malinconia e creatività
Editoriale
di Francesca Pacini
La malinconia è uno stato dell’essere, uno smottamento interiore che produce un bilico, una sospensione.
Il malinconico cammina su una zona fragilissima, senza contorni, lontana dai perimetri definiti delle cose.
In quel luogo gli eventi, i colori, i rumori e i suoni del mondo appaiono scarnificati. sottoposti a un processo di sottrazione perenne.
É da quella sottrazione che nasce la profondità.
Non a caso nel mondo greco-romano al dio Saturno l’astrologia sacra affidava il simbolismo più duro, difficile. Era lui a incarnare la malinconia (che sarà poi ripresa da Dürer nella sua famosissima incisione).
Saturno governò l’Età dell’Oro, lo splendido tempo del mito in cui l’uomo non conosceva ancora le ansie del divenire. Poi però fu detronizzato. “Esiliato sotto la terra e sotto al distesa dei mari”, divenne il dolente abitante del Tartaro, il testimone di un’ascesa e una caduta voluta dal fato.
Il Tartaro è un posto duro, infero, pieno di ombre.
Chissà, forse Saturno è ancora lì che attende, malinconico, la possibilità di un ritorno.
A lui l'astrologia sacra faceva corrispondere il piombo, il più pesante dei metalli, dal quale gli alchimisti però ricavavano l'oro. È nelle “interiora terrae”, quelle di Saturno, che suggerivano di cercare la visione spirituale.
La leggenda di Saturno e le sue valenze simboliche rimandano dunque a una fatica, una discesa, un tormento. Ma nello stesso tempo è da quel tormento che si apre il varco per “la contemplazione delle cose nascoste”, come scrive Marsilio Ficino.
Sono passati molti secoli da quel tempo lontano, gli dèi sono diventati notturni lasciando lo spazio per l'alba di un solo Dio. E poi ancora, da quel Dio, sono nati altri profeti, altre scuole. Che sono morte e risorte, in continuazione. Sono arrivati gli illuminismi, i romanticismi, le ere del progresso scientifico…
Ma dalle profondità del Tartaro Saturno, con la sua malinconia, abita da sempre ogni uomo che ha sfiorato il suo abisso interiore.
Parliamo di simboli, ovviamente. Di spirito, non di lettera.
La malinconia è propria dell’artista che nel processo creativo cerca una via di espressione.
La storia della musica, dell’arte e della letteratura sono sempre state trafitte dalle inquietudini malinconiche.
Ne è intrisa la storia, sempre, malgrado gli apici conclamati di alcune epoche, come quella romantica, che ne facevano una vera e propria esaltazione viscerale, dei sensi.
Per la maggior parte degli scrittori la malinconia è stata l’unica, vera compagna.
Come per Proust, che nel suo Tempo perduto fa dell’analogia e della memoria un grimaldello per evadere dalla dimensione spazio-temporale, peso e tormento. O come per Cioran, che nella sua “tentazione di esistere” vive il conflitto di un mondo lacerante che però non riesce a evitare e che ostacola la sua ascesa verso le altezze siderali a cui anela tanto.
Molti scrittori, poeti e pittori hanno raggiunto il Tartaro e conosciuto Saturno.
Per Virginia Woolf il Tartaro fu un’assidua frequentazione. Forse la sua vita fu davvero un esilio perenne in quelle profondità. Fatto sta che laggiù, visitando le sue terre interiori, incrociò l’orrore ma anche la sostanza più lieve di cui è tessuta la vita, da lei stessa descritta come “un alone luminoso”.
I suoi “momenti di essere” furono realmente profondi. La malinconia divenne depressione, scorticamento dell’anima, ma in quella devastazione la Woolf raggiunse anche una comprensione profonda dell’esistenza. La pagò. Come si paga ogni comprensione reale.
A lei costò la vita stessa.
Altre malinconie, più sommesse, meno invasive, hanno comunque prodotto suggestioni notevoli.
Come quelle dei film di Tim Burton, ad esempio.
Edward mani di forbice è un personaggio intenso, struggente. Vive su questo mondo ma a questo mondo non appartiene. Anche lui, in fondo, tornerà nel suo Tartaro dopo aver conosciuto l’amore ma allo stesso tempo l’alienazione provocata dall’odio umano per “i diversi”.
In effetti l’esilio è legato a doppio filo con la malinconia.
Che a volte fa scrivere canzoni bellissime, indimenticabili, come quelle di Nick Drake. Musicista notturno, invernale, silente, Drake cammina nei paesaggi umbratili facendo delle sue tensioni una musica che incide lo spazio.
Se il cinema di Tim Burton attraverso le sfumature grottesche, irreali, suggerisce anche le deformità del mondo in cui viviamo (di cui le fiabe sono solo un’estensione estrema, paradossale), la musica di Nick Drake si ripiega su sé stessa invocando un ascolto intimo, solitario.
Saturno dopo la sua sconfitta visse in esilio.
C’è un altro dio pagano, però, che fece dell’esilio un mezzo di riscatto, una sfida. Efesto (Vulcano per i Romani), il figlio di Era e Zeus, utilizzò la sua menomazione e l’abbandono forzato dell’olimpica dimora per compiere un salto creativo. Divenne infatti il fabbro imbattibile che lavorava i metalli e che costruiva le armi per dèi ed eroi. È simbolo dell’ingegno ma anche dell’alchimia che nelle profondità della terra (la stessa di Saturno) lavora i metalli interiori e fabbrica un Uomo Nuovo.
Efesto non si abbandona al rimpianto ma costruisce, si eleva proprio attraverso la conoscenza profonda della Terra e della materia.
A quanto pare la malinconia non è solo il tremore, l’assillo. È anche la profondità della creazione, la ricerca di un’origine, la tensione esasperante che precede e scorta la scintilla del genio.
Nell’immobilità esteriore (pensiamo anche all’incisione del Dürer) il terreno interiore diviene fertile in un doloroso ma necessario processo di esplorazione.
Il prezzo è alto, abbiamo detto. Ma ne vale sempre la pena.