Sotto il segno della malinconia
 






Qual è quella particolare sensibilità che è ovunque, nelle cose, dentro di noi? Una disposizione d'animo che è "vaga tristezza da cui non si guarisce", in tutta la sua potenza generatrice, come accade nelle poesie di Alejandra Pizarnik. Incursione nelle inquietudini creative dell'arte...
di Daniela D'Angelo
 
Tra le disposizioni dell’animo, la malinconia è la più ambigua e affascinante. Misteriosamente penetra dentro di noi e dondola piano al nostro interno, senza riuscire a consolare, sta al di là della felicità e al di là del dolore, ma allo stesso tempo li contiene entrambi. Precipitare in uno stato malinconico significa perdersi senza però affondare veramente nella disperazione. È il lutto senza la morte. È grazia. Ma una grazia insolita e nera, una vaga tristezza da cui non si guarisce, da cui a volte nemmeno si tenta di guarire per via di un dolce compiacimento che spesso l’accompagna. Senza che tu l’abbia deciso, ti “accade” dentro un ascolto più sofisticato del solito, e quell’ascolto speciale del mondo fuori di te e del mondo dentro di te, getta un riverbero sulle cose della vita (oggetti, sentimenti, pensieri), e quel riverbero si allarga, come fanno i cerchi nell’acqua, e si affina. Con questo sentimento, la creatività – la poesia, la musica, l’arte – quindi è in stretta confidenza. Lo racconta nelle opere realizzate: molte opere d’arte infatti si generano proprio sotto il segno propulsore e ispiratore della malinconia. Inquietudine profonda e intensa, la malinconia nell’arte, però, si risolve sempre in un accenno, in un accordo discreto. È una particolare sensibilità che, se da un lato stempera la sofferenza, dall’altro la rende più appuntita. Per questo motivo, se penso ancora a un modo per definirla, mi viene in mente il movimento delle onde, l’andare e il venire del mare, questa culla del dolore. Andare e venire. Il movimento che non consola, il dondolamento funebre. Che ti prende e ti lascia, ti dà e ti toglie. Procrastinazione, inappagamento, assenze, vuoti… se la dobbiamo pensare contraddistinta da un solo segno, allora quello è il segno meno, che per giunta non si dà una volta per tutte ma attende rinnovate conferme. Con la malinconia abbiamo tutti parecchio a che fare, chi non ricorda certe domeniche vuote della propria infanzia, le finestre chiuse della casa silenziosa al ritorno dalle vacanze, le prime piogge settembrine? La malinconia è nelle cose. O meglio, è nello sguardo che stendiamo su quelle cose. Lo dico pensando ad una poetessa argentina malinconicissima e meravigliosa: Alejandra Pizarnik, nata a Buenos Aires, il 29 aprile 1936, da una famiglia di immigranti ebrei dell'Europa Orientale, vissuta a Parigi per poi tornare a Buenos Aires, e morta suicida nel 1972, durante un fine settimana che stava trascorrendo fuori dalla clinica psichiatrica in cui era stata internata. Questi, alcuni suoi versi, che ricordo a memoria:
 
Questo lillà perde i fiori.
Da se medesimo cade
e cela la sua antica ombra.
Morirò di cose come questa.
 
Scopro in queste poche parole in che cosa consista esattamente l'anima malinconica. Del sentimento della rovina. Si nutre di questo, esiste per questo, insiste in questo: il senso della finitezza. Ogni cosa si espone a questo destino, ogni cosa ne è investita, senza opporvi nessuna resistenza, senza salvezza, senza riparo, nemmeno nella fuga –  verso dove? Semmai sarà nell'attesa che si compierà la sorte; e così, nel tempo, anche noi perderemo i nostri fiori, da noi stessi perderemo il frutto, la vita, coltivando da dentro la fine. Questo lillà perde i fiori. Come una donna perde gli anni, la propria giovinezza; il tempo si ècompiuto. Da se medesimo cade. Una pianta che muore da dentro. Un fiore che perde i propri petali, e insieme con loro la bellezza; è l’ultimo passo, il pellegrinaggio verso l’addio al mondo. e cela la sua antica ombra. Tace le sue tenebre, l’oscurità antica e eterna che cresce accanto, riposta nella luminosità dei giorni. Non è dopotutto la malinconia, secondo l’etimologia, l’umore nero, quell’ombra che si distende velata, la foschia che si allunga sulla fatica di vivere? Si può morire di cose come queste? Sì, possiamo morirne. L’identificazione con gli oggetti – il lillà – e l’identificazione del loro destino con il proprio – Da se medesimo cade (…) Morirò di cose come questa – è la conclusione, l’unica a cui si possa giungere, sull’effimero e fuggevole passaggio terrestre che ci tocca tutti, indistintamente. Tra un verso e l’altro di questa poesia contemplativa e altamente visionaria si deposita il silenzio, interludio tra la parola detta e la parola ancora da dire, tra l’immagine rivelatrice di morte e la morte, si deposita, ovvero, la solitudine.
Cogliere la caducità dell’esistenza, la transitorietà e la problematicità delle cose mondane e interiorizzare questi sentimenti facendoli propri fin nelle fibre più intime della mente e dell’anima, conduce la persona malinconica, il Poeta, a riflettere a fondo sulla vita, sul significato e sullo scopo della propria presenza nel mondo.
Quell’assenza, dolorosa, luttuosa di cui, come si è detto, si veste il cuore malinconico del Poeta, è un abito leggero e contemporaneamente impossibile da far scivolare via, o da togliersi bruscamente di dosso. Perché quelle mani che potrebbero farlo sono fatalmente mani innamorate della nebbia.
 
Qui viviamo con una mano alla gola. Che nulla è possibile già lo sapevano
gli inventori di piogge e i tessitori di parole tormentati dall'assenza.
Perciò nelle loro orazioni c'era un suono di mani innamorate della nebbia.
 
(Alejandra Pizarnik, da La figlia dell'insonnia, Crocetti 2004)
 
La spietata e indolente lentezza con cui il lillà inesorabile scandisce il suo tempo, il tempo della sua fine, esiliato persino da se stesso, sembra essere l’unica realtà a cui l’anima partecipa condividendone il pathos, ma queste corde che vibrano solipsistiche male duettano con il resto.
È un fatto di discordanze, di accordi che non si intonano col mondo. Quindi, è un fatto di solitudine. È quanto ritroviamo, ancora nelle parole della Pizarnik, in una pagina del libro La contessa sanguinaria (Playground, 2005): Credo che la malinconia sia un problema musicale, una dissonanza, un ritmo alterato. Mentre fuori tutto accade con un vertiginoso ritmo da cascata, dentro c’è una lentezza esausta da goccia d’acqua che cade di tanto in tanto. Ecco perché quel fuori contemplato dal dentro melanconico risulta assurdo e irreale e costituisce “la farsa che tutti dobbiamo rappresentare”.