Simone Barillari, ex direttore editoriale di Alet, critico letterario, dirige ora la collana Indipulitzer per minimum fax. I libri sono la sua passione. Li ama al punto che ha deciso di farne un mestiere. Lo incontro in un pomeriggio attraversato dalle acrobazie termiche di questo inverno impazzito.
Rimango incagliata nella metropolitana, tre quarti d’ora o forse più, per una ragione che rimarrà un mistero, entrata di diritto nelle piccole cronache irrisolte a cui è abituato chi vive le grandi città.
A Piazza Vittorio, per fortuna, Simone mi ha aspettato.
Abbiamo deciso di fare un’intervista letteraria sul tema della malinconia.
Seduti su una panchina, vicino a un barbone che insegue i suoi pensieri etilici, iniziamo a chiacchierare mentre un vento freddo pizzica la pelle. Meglio così. L’atmosfera è più adatta al tema della nostra conversazione.
Simone, la malinconia è molto legata alla produzione letteraria. Parliamo un po’ dell’influenza che ha avuto?
Io partirei da un libro particolare che si chiama Anatomia della malinconia, di Robert Burton. È un libro particolare, poco conosciuto in Italia. Burton identificò nella malinconia il sostentamento della creatività.
La malinconia viene dal greco e significa “umore nero”, considerato uno dei quattro umori fondamentali. La bile nera potrebbe in qualche modo essere paragonabile all’inchiostro, sembra essere secreto da chi è chino sulle carte in una penombra, chi non respira la luce del sole. In qualche modo questa persona è un recluso, è distaccata dal mondo, sia fisicamente che mentalmente. In questo senso la malinconia è stata sempre un contrassegno dell’arte, dell’essere artisti.
Questa condizione nasce dal fatto di essere soli, di non poter rivolgere all’esterno il proprio umore. C’è come una continua privazione degli elementi della vita. Soprattutto di quelli che riguardano il contatto con gli altri uomini. Ci sono quelli che hanno invece l’umore opposto, la bile gialla, cioè l’iracondia.
La malinconia è sempre stata un contrassegno dell’arte. L’artista è identificato con il malinconico.
Saturno è sofferenza, privazione. Ma nello stesso tempo produce anche il filosofo, il pensatore.
Che personaggi ti vengono in mente pensando al filosofo malinconico, al pensatore chiuso in una stanza all’ombra?
A un certo punto la malinconia diventa qualcosa di più di una malattia. Diventa una moda, un abito dell’esistenza. In Europa essere malinconici è il distintivo di coloro che vogliono fare arte. Si può pensare innanzitutto al bohémien e a uno spirito tardo-romantico.
Ma si può anche distinguere la malinconia secondo la geografia.
Ci sono due ceppi di malinconia in Europa. Quello anglosassone e quello francese. Il ceppo anglosassone ha il suo emblema in figure come quella di Thomas De Quincey, per esempio. È uno dei più interessanti del suo tempo perché è un malinconico dedito a un piacere estremamente raffinato e corrosivo come l’oppio. De Quincey è uno scrittore che ininterrottamente nella sua vita, da quando ha circa sedici-diciassette anni, scrive i suoi pensieri e i suoi ragionamenti. In questo senso la malinconia di De Quincey è emblematica, perché è una malinconia che innanzitutto attanaglia l’intelletto. È una malinconia filosofica, una malinconia del ragionare e non una malinconia del cuore, come è quella francese. De Quincey cerca di alleviare questa malinconia con l’oppio. Il suo libro più famoso è, appunto, Le confessioni di un mangiatore inglese di oppio, in cui questo sentimento di distacco dal mondo, di abbandono, di ripiegamento, è stranissima lucidità e allo stesso tempo torpore, di un pensiero che sembra disegnare delle spirali, delle viti che si avvolgono su sé stesse. Il periodare di De Quincey è un periodare estremamente articolato, raffinato, ma è un ragionare letterario che sembra essere il contraltare, il prodotto di una mente invasa dalla bile nera e dall’oppio. Nel suo caso si mescola a una vera e propria incapacità di vivere, come accade alla maggior parte dei malinconici. Una sorta di mal de vivre che è anche una sorta di inattitudine al mondo. De Quincey vive da giovane nelle case più disparate, fa amicizia con una giovane prostituta che lo salva quando lui sta morendo di inedia e di fame. Tutta la sua vita ruota intorno a queste drammatiche condizioni di esistenza e al tentativo do scacciarle con l’oppio, così come alcuni suoi interessanti contemporanei come Coleridge e Wordsworth, due figure che lui ammira e conosce quando è ancora giovane.
La malinconia di vivere che invece si declina in Francia è una malinconia estetizzante. È una malinconia della sensibilità e non più del pensiero. È un morbo nel cuore. Tocca le vene più che il cervello. Se ne possono trovare molti esempi, Da Baudelaire a Huysmans, che è così profondamente parigino. Entrambi, come l’albatros della poesia, dimostrano appunto la loro inattitudine a vivere, a procacciarsi la necessità dell’esistenza. Questa linea si salda quasi senza soluzione di continuità con Marcel Proust, agli inizi del Novecento, nella Recherche.
Proust è l’ultimo di una serie di estetizzanti e allo stesso tempo è il più grande di loro, quello che dà compimento alla loro ricerca, alla loro esasperazione della sensibilità.
La Recherche è uno straordinario monumento ai sensi estremamente malati, eccitati, alla letteratura scritta dai nervi, innanzitutto, e da una sensibilità acuita fino al parossismo. La sue stessa abitudine di scrivere segregato dal mondo, in una stanza interamente foderata di sughero, chino durante la notte, a letto, in una posizione dolorosa, chino sui fogli, sono l’emblema di una pena che si agita nella sua mente, di una sensibilità cinestesica, che riesce ad agire contemporaneamente con i cinque sensi e a espanderli tutti, pur senza fare, nel suo caso, abuso di sostanze stupefacenti.
Ma credi che la vertigine malinconica di Proust si sia in qualche modo stemperata in questo uscire fuori dal tempo attraverso la memoria? Scagliandosi in una dimensione extratemporale sembra trovare riparo e sollievo…
La bellezza è sempre un sollievo per chi la crea. Proust era molto consapevole di creare una bellezza che avrebbe ampiamente varcato i secoli. La letteratura però non deve essere terapeutica, non deve curare un determinato malessere. Una persona che non sta male forse non scriverebbe. C’è una frase inglese, piuttosto famosa, che dice: “happiness writes white”, la felicità scrive in bianco. Chi è felice non ha bisogno di scrivere proprio perché la scrittura è sempre un tentativo di restaurazione di un ordine, di riscatto di una pena nel tentativo di dare un senso a un dolore che non ne ha avuto e di riparare con l’ordine una frattura caotica. Proust era una persona estremamente tormentata, gelosissimo di sua madre. Aveva anche delle enormi difficoltà a inserirsi in società, a vivere la sua identità ebraica. Non è una personalità risolta ma è indiscutibile che ciò che cresce nella sua stanza, e alla quale attende tutta la vita (non ci sono altri libri, ad eccezione di un saggio), suggerisce la sua capacità di far convergere tutti i suoi sensi su quell’opera.
Il tentativo di voler risolvere le persone a tutti i costi è molto moderno. Penso alle psicologie varie. Però sicuramente questi personaggi hanno trovato il modo di “fissare” la loro tensione interiore nelle parole. Pensando a questo concetto, ti viene in mente qualche figura contemporanea in grado di avvicinare le tematiche che abbiamo discusso finora?
Forse il più grande malinconico di un’epoca ostinatamente razionalista è stato il rappresentante di un terzo tipo di malinconia, dopo quella francese e anglosassone. Mi riferisco a quella tedesca.
Sto pensando a W.G.Sebald Sebald, il più grande scrittore in lingua tedesca dai tempi di Bernhard, morto in un incidente quando era proprio all’apice della sua parabola creativa.
Una parabola iniziata pochi anni prima perché approda tardi alla scrittura.
Sebald sembra raccogliere l’eredità dell’erudizione del viaggio che ha caratterizzato una certa Europa tra il Settecento e l’Ottocento, e la fa propria con una cifra malinconica estremamente particolare.
È un’erudizione lenta, molto malinconica. Vive in Sebald quella che Flaubert una volta ha definito “la malinconia della materia”. Ha la sensazione che le cose intorno a lui franino continuamente, stiano lentamente cedendo. Ma è una sensazione a metà strada fra una percezione e una constatazione. Le sue narrazioni, che sono sempre in prima persona, si confondono con l’autore stesso, cercano di bloccare lo sgretolamento della realtà, descrivendolo con una cura, una dolcezza commovente. Tenta di descrivere la realtà, quello che accade, dando nitore alle percezioni. Ci sono continui smottamenti nella coscienza dei narratori di Sebald: sono uomini che si intersecano ai luoghi descritti. Un libro come Gli emigranti è attraversato dalla figura di Nabokov che torna costantemente. Nei suoi libri c’è uno scivolare inarrestabile. Si ha a sensazione che una massa tumultuosa stia avanzando nello spazio degli uomini, lo stia masticando. Si ha una sensazione di inevitabilità.
Questo tipo di malinconia è saldata con un tentativo pragmatico di approccio alla realtà, apparentemente inconciliabile con il sentimento viscerale, intimo, tipico della malinconia.
La malinconia di Cioran è di una natura diversa, in qualche modo estranea a quelle che abbiamo descritto. È in qualche modo una malinconia metafisica.
Infatti la malinconia di Cioran deriva proprio da questo...
Cioran vive una strana forma di fanatismo metafisico, che continuamente riflette sul progressivo degradarsi dell’uomo e sulla sua tentazione di esistere, sul suo tentativo che dà origine a errori. Ogni atto è errore, ogni immobilità è invece un ritorno alla quiete dell’unità, all’impossibilità di infrangere l’ordine cosmico, metafisico che era all’inizio.
C’è una tentazione di esistere verso la quale non vorrebbe indulgere, ma invano. Il profondissimo conflitto di Cioran è appunto quello di varcare il divieto. La malinconia metafisica deriva da riflessioni che guardano l’uomo senza riuscire a non disprezzarlo, a non compatirlo. E a non amarlo profondamente. Disprezza gli uomini e sé stesso, nella misura in cui è un uomo. Disprezza l’elemento antropologico nel cosmo.
Le lacrime dei santi, uno dei suoi libri, parla della caduta, della purificazione del mondo che ogni lacrima di santo porta con sé. Cioran non riesce a impedirsi di esistere, e non riesce a trovare negli uomini dei motivi per odiarli singolarmente, seppure li disprezzi nel loro insieme.
Il tempo della conversazione è finito. Le foglie secche che scivolano giù dagli alberi ci scortano mentre lasciamo piazza Vittorio, destinati a luoghi diversi. Nel frattempo l’abbraccio notturno della sera che avanza sembra disegnare il finale giusto per questo incontro.