Le cronache di Jessica Rabbit
di Lady Oscar

 

                                                                  

 

 

Poco tempo fa sulle prime pagine della Repubblica continuava a campeggiare la pubblicità del nuovo libro di Lilli Gruber..

Difficile non domandarsi quanto sia cambiato il giornalismo negli ultimi vent’anni, con la televisione e le nuove tecnologie.

Se la Fallaci indossava un elmetto nelle leggendarie fotografie del Vietnam, la Gruber che ci ha sorriso con le sue labbrone dal Medio Oriente portava il chador come si fosse  trattato di un foulard di Hermès.

 

Invece di bucare la mente trafiggendola con la punta affilata della scrittura, oggi bisogna bucare il video.

Lilli Gruber lo sa benissimo.

Lei, la Jessica Rabbit del giornalismo nostrano, è forse la summa più eloquente degli ingredienti del giornalismo televisivo contemporaneo: presenzialismo (è ovunque, approdata perfino nella Commissione Affari esteri di Bruxelles), fotogenia e cura del look (guardate le foto sfavillanti nel suo sito www.lilligruber.net),  atteggiamento politically corret (in un politically ovviamente schierato), composto, retorico, scontato.

 

Come Jessica Rabbit, anche la nostra Lilli è assai seducente, con quel capello rosso fuoco (tinto) che si accende in televisione contrastato dal nero che perimetra, e tenta di contenere,  le sue scollature abissali.

Vogliamo fare i moralisti? Certo che no!

Però ci domandiamo, sconfortati, quanto l’apparenza, di nuovo, conti sull’essenza. Quanto le labbra a deretano di gallina contino più di quello che dicono. Quanto il viaggiare di molti  moderni reporter, intruppati in alberghi a infinite stelle, sia diverso dalle perlustrazioni di quegli avventurieri del giornalismo che giravano in Vietnam, ad esempio, rovistando fra le storie in cerca della Storia.

 

Ma le epoche cambiano, e i giornalisti si adeguano. Finite le ere dei Terzani, delle Fallaci, dei Montanelli? Temo di sì.  

 

Oggi ci toccano le Jessiche Gruber impomatate, con quel successo mediatico che è un mix di immagine e parola “giusta”, critica ma non scomoda, severa ma non fustigatrice, commovente al punto giusto, regolata dalle frequenze della televisione che preme sulla parola, la costringe a piegarsi all’immagine mentre la faccia con le labbra arricciate schiocca baci  verso la telecamera.

 

Ai mezzobusti francamente io preferisco i busti interi. Quelli che con le loro gambe camminano e raccontano e poi scrivono. E che se ne fregano del loro look. E che non hanno un sito personale con una galleria fotografica degna di un servizio di  Vanity Fair.

 

Anche la Gruber ha fatto l’inviata, vero. Ma le sue sembrano gite. Come quando la Guzzanti faceva la parodia di Letizia Moratti in visita nella scuola pubblica, vestita da safari, a caccia di strani esemplari chiamati “studenti”.

Pure la nostra Lilli fa i suoi safari  nelle zone di guerra.

 

E oggi, non contenta di essersi seduta sulle poltrone di Bruxelles, sforna libri da salotto sulle questioni internazionali. Corretti, tremendamente corretti. Politicamente corretti.

E finisce tra i più venduti, insieme ai soliti Vespa e affini.

 

Eh già, ci fa rimpiangere la Fallaci. Quella delle foto storiche, al fronte, con l’elmetto addosso. Unica civetteria, una striscia di eye-liner.  Unica avversione: il giornalismo cotonato, alla Jessica Gruber.