Numero 14
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Il levantino, Eric Ambler, 2008 Adelphi (Titolo originale: the Levanter, 1972)
Ho conosciuto l’opera dello scrittore Britannico nel 1999, un anno dopo la sua morte a Londra (dove era anche nato nel 1909). Da qualche parte mi ero imbattuto in una recensione di Corrado Augias, che mi aveva indotto ad acquistare e leggere con soddisfazione Il caso Schirmer. In precedenza, appresi poi, alcuni dei suoi romanzi più fortunati erano stati pubblicati, fra gli altri, da Mondadori e Garzanti ed erano ormai introvabili se non, forse, in qualche bancarella di libri usati. Da quel primo volume, Adelphi ha regolarmente mandato in stampa altri sette titoli e Il levantino è appunto l’ultimo in ordine di tempo. Ambler è riconosciuto come il maestro del moderno romanzo di spionaggio e le sue storie ricordano un po’ i film di Alfred Hitchcock, quelle in cui un personaggio apparentemente ordinario si ritrova invischiato in un intrigo che rischia di schiacciarlo e che lo costringe a guardarsi dai cattivi, che lo vogliono succube o morto, ma anche dai buoni (polizia, servizi segreti…), ai quali deve dimostrare la propria innocenza. Ciò che distingue Ambler è la capacità di andare oltre il genere, preoccupandosi, come è giusto, di ordire una spy story accattivante, con tutti gli ingredienti del caso, ma trovando una sua personale via . Ecco quindi che l’ambientazione esotica (qui siamo in Siria ma nel precedente Motivo d’allarme, ad esempio, buona parte dell’azione si svolgeva a Milano) non si limita a immagini da cartolina ma si concreta in analisi approfondite, degne (e forse anche nello stile) del miglior corrispondente estero. Ecco dei personaggi secondari funzionali e vivi, che sembrano uscire dalla pagina, tanto sono reali. E naturalmente ecco i protagonisti, che Ambler non si da necessariamente pena di farci piacere o compatire. La sua maggiore preoccupazione è quella di raccontarci in maniera credibile il modo in cui essi riescono a togliersi dai guai facendo leva sulle proprie conoscenze e sulla capacità, a loro stessi sconosciuta (fino ad allora almeno), di adattarle all’inedita situazione. Qui il rischio di essere didascalici è molto alto ma Ambler lo aggira sapientemente, imbastendo dei dialoghi che alleggeriscono l’aspetto tecnico senza banalizzarlo e consentendoci fra l’altro di familiarizzare con la natura dei diversi attori. Attraverso la loro voce, il nostro riesce a farci pervenire, senza imporcelo, il suo punto di vista, con uno stile asciutto, venato di una sottile e britannica ironia. Secondo le mie ricerche, sono una decina i titoli non ancora ristampati da Adelphi. In questi tempi bui, un pensiero confortante.
Giulio Crotti
La manutenzione della vita vera Di Debra Adelaide, Salani, 2009. Titolo originale: The household guide to dying.
Quel che manca nel titolo italiano lo scopriamo dopo: Guida pratica al morire. Già, perché la voce narrante è una scrittrice, una moglie, una madre, ma soprattutto una malata terminale.
Sapere di essere in scadenza, irrimediabilmente alla fine, amplifica la percezione delle cose ‘normali’: la forma perfetta di un uovo, l’odore dei bambini, il nome misterioso e specifico degli attrezzi da lavoro. Ecco come scaturiscono descrizioni inconsuete di cose qualunque, riflessioni tridimensionali su qualcosa di piatto, per esempio il comportamento delle galline.
C’è un’ironia sottile, agrodolce, nel congedarsi dalla vita trasformando l’eccezionale in ordinario, addirittura in mestiere, per la protagonista che per lavoro scriveva manuali di auto-aiuto. Nel frattempo ripercorre la propria vita, cerca di sistemare qualcosa di sospeso nel proprio passato, dispensa consigli e ricette senza commiserarsi né lagnarsi del proprio destino, notando argutamente la reazione degli altri all’innominabile morte e ai suoi allegati.
Nonostante la trama sia abbastanza scontata, zeppa com’è di sicuri impatti emotivi ? la malattia, il viaggio all’indietro, un figlio perduto, una ‘non’ figlia ritrovata, ci mancava solo che rincontrasse l’amore di gioventù per cadere nel patetico ? il racconto mantiene una certa freschezza proprio nel riconsiderare le piccole cose, nel vedere la bellezza negli oggetti quotidiani, consunti dagli sguardi casuali.
Abbiamo bisogno ogni tanto di ricordare che non serve essere in punto di morte per sentirsi vivi.
Cinzia De Luce
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