Numero 11
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stampa questa pagina [versione printer friendly] Lo spazio bianco, Valeria Parrella, Einaudi
Nella Napoli inquinata e caotica dei nostri giorni, Maria insegna materie letterarie in una scuola serale “a giganteschi camionisti che faticano a infilarsi nei banchi”. Quarantaduenne, single, ancora alle prese con le insicurezze e il disagio lasciati da un’adolescenza tormentata nella provincia operaia, Maria inaspettatamente resta incinta da chi non ha “tra i suoi cromosomi il principio di responsabilità”. Con la stessa ostinazione che l’ha accompagnata tutta la vita, Maria porta avanti la gravidanza e dà alla luce, prematuramente, Irene. Le sue giornate iniziano, così, a dipendere dall’oblò di un’incubatrice e dal bollettino medico nell’attesa di sapere se e come vivrà sua figlia. Maria inizia a guardare il mondo con occhi diversi, circondata da nuovi amici che irrompono nella sua vita; lei che non è mai “stata buona ad aspettare”, impara a usare la parola speranza e a dare un significato diverso anche al concetto di futuro. Lentamente capisce che nella vita è possibile chiudere un periodo, metterci uno spazio bianco e ricominciare a scrivere usando il presente. Lo spazio bianco è un romanzo intenso e coinvolgente; i dialoghi brillanti, l’ironia, le espressioni dialettali disseminate tra le pagine lo rendono ancora più reale, più vicino ad una storia raccontata dalla tua migliore amica che all’immaginazione di una scrittrice. (Barbara Porretta)
Amélie Nothomb, Né di Eva né di Adamo, Voland edizioni
In questo suo nuovo romanzo, Né di Eva né di Adamo, Amélie Nothomb racconta del suo ritorno in Giappone: dopo la sua infanzia (fino ai 3 anni) nipponica narrata in Metafisica dei tubi e dopo l’esperienza lavorativa nella multinazionale Yumimoto tragicomicamente raccontata in Stupore e tremori, ora l’autrice ci riferisce le vicende sentimentali, simultanee e parallele a quelle di impiegata, vissute nella terra del sol levante. E lo fa con straordinaria bellezza: la sua scrittura è leggera, rapida, ironica ma anche profondamente filosofica, una narrazione che ride, danza e gioca, una lievità affatto superficiale, che emoziona e fa riflettere insieme. Sempre molto interessante, è il modo in cui la Nothomb ci introduce e ci fa conoscere la cultura giapponese, mostrandoci come sia diversa per certi aspetti e simile per altri alla nostra: attraverso piccole analisi linguistiche, ora divertenti – «il verbo asobu non ha lo stesso significato del verbo to play [giocare]. In giapponese, tutto quello che non è lavoro si chiama asobu. […] Corrisponde alla nozione dell’otium latino» (p. 18) – e ora emotivamente coinvolgenti – «koi in francese classico si può tradurre con “diletto”. Mi procurava diletto. Lui era il mio koibito, colui con il quale condividevo il koi: provavo diletto in sua compagnia» (p. 49); attraverso brevi spiegazioni delle abitudini di quel paese – come il fatto che sia naturale, e perciò accettato, che i vecchi, dopo una vita ligia al dovere, «si abbandonino ai comportamenti più assurdi» (p. 25), o come il fatto che, dopo una dura carriera scolastica e prima di un’altrettanto dura vita lavorativa, gli studenti universitari abbiano «il privilegio squisito di perdere le giornate» (p. 104) e la loro vita sia «accuratamente votata al vago, all’incerto, a un lussuoso niente di niente» (ibid.) – e delle sue manie, anche buffe – «poco a poco avrei scoperto il culto che i giapponesi dedicano all’equipaggiamento destinato a ogni azione della vita: l’equipaggiamento per la montagna, l’equipaggiamento per il mare, l’equipaggiamento per il golf e, quella sera, l’equipaggiamento per la fonduta svizzera» (p. 37). Nei suoi testi, poi, la Nothomb dimostra anche una certa capacità di intrecciare la sua trama narrativa con qualche buona riflessione filosofica. In questo caso, tocca al Nietzsche di Così parlò Zarathustra essere chiamato esplicitamente in causa: «se sei Zarathustra, hai piedi divini che mangiano la montagna trasformandola in cielo e, contemporaneamente, al posto delle ginocchia hai catapulte con il resto del corpo come proiettile. Al posto del ventre hai un tamburo di guerra e al posto del cuore la percussione del trionfo, hai la testa abitata da una gioia tanto terrificante che necessita di una forza sovrumana per sopportarla, possiedi tutti i poteri del mondo per l’unico motivo che li hai avocati a te e puoi contenerli nel tuo sangue, e non tocchi più terra causa il dialogo ravvicinato col sole» (p. 78). Con questo autentico spirito nietzschiano – dionisiaco, libero e fanciullesco, fatto di aspirazione all’altezza e leggerezza, di coraggioso e orgoglioso sguardo dritto al sole, di leonina forza di volontà – Amélie si prepara alla scalata del Monte Fuji. La scrittura della Nothomb sembra davvero molto acquatica – elemento, del resto, spesso presente nei suoi romanzi – perché fluida, chiara, fresca, capace di muoversi – e far muovere con sé il lettore – attraverso le dure pietre dei piccoli eventi narrati. E la tessitura dei suoi testi è di ottima fattura, sia per quanto riguarda i fili intrecciati in ogni singola opera, sia per quanto riguarda i fili che mettono in comunicazioni e intrecciano tra di loro – attraverso rimandi più o meno espliciti – i diversi romanzi, creando una trama più vasta e più complessa, cosicché se anche si può apprezzare la lettura di un singolo libro, quella di più libri, l’immersione sempre più completa nell’universo Nothomb, non può che accrescerne il piacere, il gusto. (Stefano Petruccioli)
Se consideri le colpe, Andrea Bajani, Einaudi.
“A voi italiani piacciono le fighe romene”, fa Monica a Lorenzo con un sorriso amaro. Ma Lorenzo non è arrivato fin lì, in quel capannone blu con in cima una bandiera italiana e una della Juventus, alla ricerca della figa. Lorenzo è arrivato fino a Bucarest solo per veder finire sotto terra Lula, sua madre. E un po’ anche per ritrovarla, per capire chi era, per scavare tra i ricordi. Dal passato emerge un’infanzia vissuta tra la rabbia, per le continue partenze di Lula, e l’attesa per i suoi ritorni, fino al giorno in cui la partenza è stata definitiva. Ai regali si alternano i litigi, le incomprensioni, le assenze, le domande. “Ti sei mai chiesto perché non è più tornata?”. È anche per rispondere a questo interrogativo che Lorenzo ha voluto oltrepassare la frontiera della Romania mentre, nella direzione opposta, una colonna di romeni abbandona quotidianamente il paese. Se consideri le colpe è un romanzo doloroso, di quelli che non si possono leggere tutto d’un fiato perché tante frasi fanno male quanto un pugno alla bocca dello stomaco. E allora hai bisogno di fermarti, incassare il colpo e poi riprendere la lettura. Alla storia di Lorenzo, ai vuoti che riaffiorano dalla sua infanzia vanno ad aggiungersi le contraddizioni della Romania dei nostri giorni. Il romanzo di Andrea Bajani, infatti, è anche un viaggio in una realtà che, accecati come siamo dalla nostra presunta superiorità occidentale e dai pregiudizi, preferiamo ignorare o liquidare con osservazioni superficiali. Se consideri le colpe è scritto in prima persona, in modo diretto, quasi brusco; una scrittura essenziale, con pochi aggettivi, ma dalla quale emerge chiaramente la personalità dei protagonisti. Con questo romanzo Andrea Bajani riesce a smentire quanti accusano gli scrittori esordienti italiani di mancanza di spessore e incapacità nel trattare tematiche profonde. (Barbara Porretta)
Serendipità - uno sguardo su Connolly
John Connolly è nato a Dublino nel 1968 e vive tra gli Stati Uniti e l’Irlanda, dove collabora regolarmente a “The Irish Times”. Sono ormai cinque i romanzi di questo autore pubblicati in Italia dalla BUR e queste due righe scarse costituiscono da sempre, invariabilmente (ho controllato) le note biografiche riportate nella quarta di copertina. Indolenza italica o ritrosia irlandese? O una sapiente strategia di marketing volta a creare mistero? Chi può dirlo… Quale che sia la risposta, un fatto è certo: se andate in una libreria sui generis e provate a chiedere qualcuno di quei cinque titoli, il commesso di turno vi guarderà con bonaria condiscendenza e sospirando “vuol dire Connely!?” vi indicherà una pila di mattoncini bianchi della Piemme accatastati nella sezione best seller o thriller. Non perdetevi d’animo, ripetete il nome scandendo per bene le sillabe e sollecitate, se è il caso, la consultazione dell’immancabile computer. Allora, è molto probabile che il vostro interlocutore scopra di avere in casa l’ultima fatica del nostro (L’angelo delle ossa) e magari, se siete fortunati, un altro titolo o due. Questo, almeno, è quello che è successo a me. Avevo già letto Tutto ciò che muore, il primo capitolo della saga di Charlie “Bird” Parker, solleticato dalle entusiastiche recensioni di alcuni lettori su Internet bookshop dove, lo ammetto, curiosavo fra i titoli del quasi omonimo e ben più famoso (e prolifico) creatore del Poeta. E mi era piaciuto, accidenti. Senza gridare al capolavoro, avevo trovato Tutto ciò che muore un thriller solido, con una trama complessa ma mai contorta, dei delitti (è pur sempre di un noir che stiamo parlando) di un’efferatezza allegorica priva di compiacimento e dei personaggi molto ben tratteggiati, che non cercano necessariamente la nostra simpatia o approvazione e che danno vita a dialoghi dal ritmo sostenuto. E il fatto che si trattasse del romanzo d’esordio di un autore che nel frattempo, a mia insaputa, aveva già pubblicato altri quattro volumi, alimentava la speranza di aver trovato qualcuno capace di andare oltre i confini del genere, nobilitandolo come già aveva fatto prima di lui il grande James Ellroy di Dalia nera. Con questo spirito e queste aspettative decisamente ingombranti ho acquistato i rimanenti titoli e li ho letti con avidità e per una volta posso dire che la realtà ha superato le mie migliori speranze. La lettura di questi romanzi è un piacere sottilmente inquietante dal quale riesce difficile staccarsi. Questo irlandese semi sconosciuto descrive il male con un lirismo che ha pochi riscontri nel panorama mondiale. Charlie Parker è un personaggio tormentato (nella miglior tradizione noir), con la sua parte di ferite e di demoni, combatte la sua disillusione con il sarcasmo piuttosto che con il cinismo e riesce a conservare una sua moralità, pagandone regolarmente il prezzo. Connolly non disdegna intrecci complessi (che sono il sale del noir) ma non cerca le complicazioni e soprattutto riesce a modulare il ritmo in un crescendo sapiente (ne è strepitoso esempio il capitolo conclusivo di Gente che uccide) ben servito da dialoghi mai banali, degni del miglior Lansdale, e con dei personaggi di contorno di sicuro spessore. Attenzione all’anno di pubblicazione in Italia, non lasciatevi ingannare: la sequenza giusta è quella che riporto di seguito. Tutti i titoli sono disponibili in edizione tascabile ma, ribadisco, non sono facile da trovare in libreria. Per fortuna c’è internet. Per una volta, soldi ben spesi. (Giulio Crotti)
Tutto ciò che muore (2002), Il ciclo delle stagioni (2003), Gente che uccide (2004), Palude (2003), L’angelo delle ossa (2006)
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