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Numero 2



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Il viaggiatore immobile



 





C'è chi del viaggio fa una migrazione immobile. Come Christian Bobin, scrittore francese che  fa delle meditazioni interiori il perno della sua prosa. Perché non c'è bisogno di viaggiare per conoscere, e per amare.
Storia di un pellegrino d'eccezione...

di Moreno Migliorati

 


In una delle poche foto disponibili lo si vede seduto sopra una panchina, il braccio sinistro appoggiato sul bordo, mentre lo sguardo fissa un punto indefinito dietro l’obiettivo del fotografo. L’esatto contrario del viaggiatore.

Lui è Christian Bobin, scrittore francese che da qualche anno anche il nostro Paese ha imparato ad apprezzare ed amare. Nato nel 1951 a Le Creusot, nella Francia centro-orientale, come ama ripetere spesso, dalla sua cittadina si allontana assai raramente.

 

“Due ore steso sul letto di una camera, a guardare i movimenti di una tenda mossa dal vento. Che c’è di meglio da fare? È un’occupazione –ammesso che lo sia- un po’ triste, o per lo meno malinconica? Niente affatto, niente affatto. Potrebbe essere piuttosto il contrario: quest’immobilità del corpo e questo fremito di una tenda formano una delle immagini più certe della gioia. Di fronte alla pienezza di quelle ore –sì, sì: pienezza- scrivere è quasi troppo”.

 

In queste righe tratte dal suo libro forse più riuscito (Autoritratto, edito in Italia dalla San Paolo) è contenuta in nuce la teoria della sua opera letteraria, anche se sarebbe più esatto dire, della sua stessa concezione della vita. In un’intervista (a corredo della quale si trova la foto citata all’inizio) Bobin afferma infatti di essere “convinto di essere fatto di ciò che incontro, di ciò che amo, di ciò e di coloro ai quali penso”. In maniera più approfondita, afferma ancora lo scrittore francese, “sono fatto di ciò che vedo, cioè esisto all’esterno di me stesso”.

L’immobilità fisica, nel pensiero di Bobin, non è quindi sinonimo di non conoscenza, tutt’altro. Né si pensi che il camminare e l’andare verso un dove sia estraneo al suo pensiero. Una sua piccola opera si intitola anzi L’uomo che cammina. Colui che “senza sosta cammina, va qui e poi là. Trascorre la propria vita su circa sessanta chilometri di lunghezza, trenta di larghezza. E cammina. Senza sosta. Si direbbe che il riposo gli è vietato”, è Gesù, anche se Bobin, non lo nomina mai esplicitamente.


Come notato acutamente da Guido Dotti nella postfazione dell’opera, il camminare è talmente importante da essere costitutivo dell’essere stesso del protagonista. Si potrebbe anzi dire che egli è fatto –analogamente all’autore che gli ha dato vita- di ciò che incontra e di ciò che ama. Ma è altrettanto vero che il suo andare si è svolto in un perimetro assai limitato (i sessanta chilometri di lunghezza e i trenta di larghezza ricordati prima) e quindi il suo, nota Dotti, è stato “un cammino abbordabile da chiunque, estremamente umano: chiunque poteva seguirlo”.

Non le rotte dei grandi viaggiatori, dunque, ma un camminare lungo la ferialità delle nostre esistenze quotidiane.


Del resto, Bobin di questo è estremamente convinto, non c’è affatto bisogno di camminare per andare a scoprire sempre cose nuove. “L’arte di camminare –egli afferma- è un’arte contemplativa. All’inizio si guarda quello cui si passa accanto, poi lo si diventa”. Diventiamo, in poche parole, il paesaggio che ci circonda.

Ma questo sarebbe possibile, sembra suggerire Bobin, se attraversassimo paesaggi sempre diversi e cangianti? Non prevarrebbe invece, in questo caso, la curiosità spicciola che è la vera nemica dell’attenzione? È lecito, sì, dirigersi verso l’ignoto, ma occorre farlo “non per conoscerlo, ma per amarlo”.


Ecco allora che, più che i passi dello scrittore (pur importanti) occorre incentrare l’attenzione sui passi che lo stesso fa compiere alle parole. “Se dovessi dare una definizione povera, elementare della scrittura, direi che è un’attività in cui lo scrittore non è tanto il creatore quanto un ‘passatore’ –afferma Bobin- Immagino me stesso e gli scrittori che leggo  e che amo, come persone in mezzo a un guado che fanno passare qualcosa da una sponda all’altra”.

 

“Penso a voi che andate in capo al mondo per affari o per turismo. Penso a voi che prendete treni, navi, aerei. Vi auguro di trovare tante meraviglie quanto quelle che fioriscono in questa città da cui non mi muovo mai”. 

Così termina la “autobiografia” (le virgolette sono d’obbligo visto il genere letterario) di Bobin, quell’”Autoritratto” citato sopra. In essa protagonista non è l’autore viaggiatore, protagoniste sono piuttosto le cose che fanno sì che egli come autore esista. E che egli, appunto come “passatore” immobile e partecipe, consegna ai suoi lettori.