Numero 2
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Parola di Marie
La Cardinal non è solo una scrittrice. É anche una donna che ha sofferto, sulla pelle, la ferita del disamore. O meglio, di un amore inconcluso, quello dei suoi genitori. E che con un percorso analitico durato sette anni ha vissuto morte e rinascita.
di Alina Padawan
"Per sette anni, tre volte alla settimana, ho camminato lungo questo vicolo, fino in fondo, fino al cancello di sinistra. So come cade la pioggia sui ciottoli di vetro, so come gli abitanti si riparano dal freddo. So che d’estate la vita diventa quasi agreste, con i vasi di gerani alle finestre e i gatti addormentati al sole. Conosco il vicolo di giorno e di sera”.
Per sette anni Marie Cardinal ha percorso lo stesso tragitto, alle stesse ore, nelle giornate in cui l’andare era leggero, pieno di scampoli di speranza, e nei giorni in cui non riusciva nemmeno a prendere un taxi. Aveva un appuntamento importante, Marie.
Un appuntamento di quelli che non si possono perdere altrimenti la vita comincia a girare a vuoto, come una centrifuga impazzita al centro del nulla. Insomma questo appuntamento era molto importante. Marie doveva incontrare sé stessa.
Lo specchio su cui affacciarsi per riflettersi, e imparare conoscersi, era offerto da un muro bianco su cui stavano appesi dei quadri, oggetti per lei estranei che servivano solo a fornire un punto d’appoggio al vagabondare degli occhi in cerca di qualche appiglio che la salvasse dalla oscurità in cui si andava calando. Dietro di lei, un omino impassibile con una voce accogliente ma distaccata, liscia, priva increspature confidenziali, ascoltava la sua morte e la sua nascita.
Già, perché se di solito si nasce e poi si muore, può anche capitare il contrario. Si muore e poi si nasce, come in una moviola che altera l’ordine fiscale di un tempo che procede solo “in avanti”.
A Marie Cardinal quei sette anni di analisi hanno salvato la vita. E l’hanno anche aiutata nel percorso di scrittrice affinando le sue parole,. insegnandole a usarle con meno artifici e più verità, spingendola a fondo nei significati emotivi che raccontano, che trattengono come perle di rugiada appese a un filo d’erba.
“Non ci avevo mai pensato, non mi rendevo conto che ogni scambio di parole fosse un fatto prezioso, rappresentasse una scelta. Le parole erano astucci, tutte contenevano una materia vitale. Le parole potevano essere veicoli inoffensivi oppure macchine variopinte da autoscontro che si urtavano nella vita quotidiana provocando scintille che non ferivano (…). Potevano essere ferite o cicatrici di ferite, potevano somigliare a un dente marcio in un sorriso di gioia. Potevano essere giganti, rocce ancorate solidamente alla terra, grazie alle quali si possono attraversare torrenti in piena. Le parole infine potevano essere mostri, SS dell’inconscio che rinchiudono i pensieri dei vivi dentro le prigioni dell’oblio.
Ogni parola che faticavo a pronunciare rappresentava in realtà un territorio nel quale rifiutavo di entrare”.
Ma doveva entrarci, Marie, in quei territori. Altrimenti avrebbe continuato a morire ogni giorno, con la vita trasformata in un sudario dal quale avrebbe osservato attraverso la trama immobile l’altra trama, quella del mondo dei vivi, che si agitava, palpitava, brulicava intorno a lei. Le parole per dirlo, libro autobiografico, doloroso, intensissimo, è il racconto di questo viaggio nel regno dei morti alla ricerca di sé.
Ma quando si era persa, Marie? Quando arrivò da quell’analista la vita l’aveva già urtata più volte fino a farla girare a vuoto come una trottola. L’ansia, il malessere di un sangue che si ripresentava ossessivamente, come una mestruazione interminabile che nessun medico aveva saputo spiegare non le lasciava tregua, la braccava come una volpe inseguita da una muta di cani. La scienza non aveva risposte. Infatti non c’era nulla di “razionale” in quella ferita dell’anima. Il male di Marie aveva bisogno di parole, per essere curato. Parole che fossero in grado di calarsi nelle grotte in cui giacevano emozioni dolorose, ricordi rimossi, angosce esistenziali incustodite, abbandonate a una deriva implacabile in cui la costa era un miraggio lontano.
Fuggita da una clinica psichiatrica in cui l’avevano messa a “riposo” ( agli inizi degli anni ’70, questa ‘l’epoca in cui lei iniziò il suo viaggio , il disagio psichico era ancora temuto come la peste), madre di tre figli che non riusciva più a seguire, Marie fu sbattuta dalle onde su quella spiaggia straniera, nella casa costruita su quel vicolo vuoto, abitata da quell’analista indicatole da una sua amica. E quando Marie scoprì che lui non era affatto interessato al suo sangue, il sangue che per anni aveva presentato a tutti come uno scudo, come “il problema”, il responsabile del suo malessere, l’alieno che le rovinava la vita, ma che quel sangue per l’omino straniero rappresentava solo “un sintomo psicosomatico” di cui non gli importava nulla, allora, in quel preciso momento, la sua vita si spezzò e da quel momento iniziò, segretamente, a ricomporsi. Come poteva non importargli di quel sangue che la obbligava a indossare sempre mucchi di pannoloni? Che la piegava nello spazio angusto fra tazza e bidet, rannicchiata su sé stessa come un feto mentre grumi vischiosi abbandonavano le cosce e formavano sinistri rivoli sul pavimento? Eppure dal momento in cui lasciò lo studio quel sangue smise di esistere.
Adesso era sola davanti alla Cosa, come chiamava la sua follia. C’era un mostro che viveva dentro di lei, un essere cattivo, crudele, che di notte le serrava la gola procurandole attacchi di panico. Un essere indegno, sporco, colpevole. La ferita del disamore mano a mano cominciava a sanguinare dentro di lei.
Finalmente, però, si trattava del sangue vero, simbolico, che quello fisico aveva tentato di rimpiazzare.
Quell’uomo alle sue spalle la ascoltava mentre lei verticalizzava i suoi pensieri, dava loro una voce, un colore, un’immagine., una forma concreta. Era una presenza discreta che le dava il coraggio di avventurarsi nella memoria senza smarrirsi. Recuperare i ricordi d’infanzia.
Del padre, figura fragile e poco nobile, e della madre, perfetta, dall’anima austera e levigata, la religione salda e due braccia forti per aiutare i mendicanti e i bisognosi della città. Una madre irraggiungibile, cristallizzata nella memoria dalle sue percezioni infantili, fluttuante nei ricordi ingialliti che conservavano però il candore della sua purezza materna.
Avvicinarsi a quella reliquia non fu facile. E, soprattutto, non fu facile cambiare progressivamente punto di vista. Quella madre non era l’essere perfetto che lei ricordava , che era costretta a ricordare; non era la santa dei diseredati, l’angelo asessuato che vegliava sul mondo dalla sua nuvola bianca.
Le ci vollero molto tempo, e molta fatica, per ricordarsi della bambina che era stata, e che ancora selvaggiamente viveva dentro di lei, trascurata dalla superficie solare della ragione: creatura lunare, notturna, che scorazzava nelle praterie dell’inconscio in cui galoppava senza sella in un cielo privo di stelle.
Solo Marie poteva restituirle i percorsi della Via Lattea. Come era stata viva, Marie, e come si era poi rimpicciolita dibattendosi fra due genitori che non si amavano più, con il padre consegnato per sempre al demonio nella sua casa, nella stanza da letto in cui ospitava le prostituite che venivano a fargli visita in continuazione, e la madre, che inseguiva la sua purezza dedicandosi a Dio ma trascurando sua figlia.
Poi suo padre morì. Morì di tisi, e nel ricordo Marie andava ricomponendo la scacchiera della sua famiglia, con quella prima sorella morta quasi subito dopo la nascita per il male ai polmoni che le aveva attaccato quell’assassino di suo padre, come ricordava sempre la madre.
L’analisi proseguiva fra entusiasmo e paura, balzi in avanti e ricadute.
Finchè, finalmente,. i due episodi cruciali che le avevano segnato il cuore e l’anima tornarono a vivere proiettati sulla parete bianca di quella stanza, in quel vicolo estraneo al caos parigino.
Finalmente le parole riuscirono a radunarsi per raccontare quel giorno terribile che aveva cambiato la sua vita per sempre.
Fu quando sua madre, passeggiando in mezzo alla folla, le devastò l’adolescenza in fiore raccontandole di come avesse provato a liberarsi di lei quando era incinta.
Non voleva quella bambina perché era rimasta incinta in pieno divorzio. Ma la sua vicinanza a Dio le aveva proibito di recarsi dai “medici cattivi” che strappavano il feto dal ventre: ci aveva provato da sola, ad ammazzarla, ci aveva provato andando a cavallo per ore, urtando tutto ciò che incontrava quando era in giro con la bicicletta, sfidando il sole per ore mentre agitava la sua racchetta da tennis. Invano. Ogni tentativo di esiliarla dal ventre era fallito. Quella creatura non aveva intenzione di andarsene, era un piccolo ospite già affamato di vita prima ancora dell’alba.
Le parole di Marie fecero rivivere lo sguardo feroce di sua madre mentre le raccontava di come non fosse riuscita ad ammazzarla, ridipinsero quel pomeriggio plumbeo spogliandolo dei colori brillanti con cui la ragione, in un ultimo disperato tentativo davanti alla tomba violata, aveva cercato di illuminarlo.
Sua madre era cattiva, e soprattutto era una donna come tutte le altre. Anzi, peggio. Era un’assassina mancata. Non era mai stata amata sul serio, Marie, e la Cosa, la sua pazzia,.era frutto di quell’omicidio mai consumato. Capì che lei e la pazza erano la stessa persona, che non doveva temerla ma accettarla.
I ricordi viaggiavano sulle parole; lentamente lei recuperava porzioni di territorio alla sua esistenza. Mancava un ricordo remoto,. un frammento che avrebbe cancellato la sensazione che la perseguitava, l’incubo di essere vista da un occhio che dall’estremità di un tubo le frugava dentro.
Ricordo lontanissimo di un pomeriggio lontano, quando a un anno e mezzo Marie stava facendo la pipì vicino a un cespuglio e si accorse che suo padre stava violando la sua intimità riprendendola con la telecamera. Lo aveva aggredito, picchiato. Ecco, dopo tanti anni l’incubo aveva uno scenario reale. Non era pazza, era solo una bambina spaventata, come allora, per i suoi frutti segreti rubati e la violenza con cui li aveva protetti.
La bambina e Marie si stringevano la mano attraverso le parole. Sillabe e consonanti che la guarivano, la salvavano, le offrivano porto e sicurezza. Parole vissute, esperite, e non solo pensate. Non c’è intelletto che possa vibrare sul serio senza un moto del cuore.
Le parole per Marie sono state il traghetto con cui navigare dentro di sé per tornare a disseppellire quella bambina intrappolata nei sepolcri interiori, notturni, in quelle terre di nessuno in cui galoppava, non vista, priva d’aria e di stelle.
Un viaggio all’interno di sé, con il linguaggio come arma e scudo allo stesso tempo. Spada per tagliare le nebbie e protezione contro i fantasmi senza nome che mano a mano incontrava. Dare un nome non è solo elencare, è rendere vivo qualcosa.
Ma il viaggio raccontato da Marie Cardinal ha avuto successo perché le parole non sono state mera architettura dell’intelletto, oggettivazione di disagi antichi ormai perduti; lei le parole le ha vissute agganciandosi alle emozioni, alle sensazioni disseminate nello spazio e nel tempo. Come briciole di Pollicino, le ha recuperate con amore e pazienza.
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