Numero 16
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stampa questa pagina [versione printer friendly] Memorie in vendita
Il cinema ha sempre strizzato l'occhio al tema del ricordo che incrocia il futuro, con risultati davvero eccellenti. Da Blade runner a Ghost in the shell, da Total recall a The final cut, registi e sceneggiatori hanno dato vita a storie e figure indimenticabili. Nell'era digitale, la tecnologia si mangerà i nostri vissuti? Li trasformerà in prodotti minuscoli, da infilare in tasca in caso di necessità? Molte domande e alcune risposte...
di Flavio Serantoni
Nell’epoca dell’informazione globale, e della digitalizzazione dei dati, ogni dato che ci riguarda viene memorizzato su un supporto magnetico o digitale, e le nostre vite finiscono per esser descritte da un insieme di uni e zeri da interpretare e decifrare con il giusto programma.
È infatti cominciata da qualche tempo, senza che i più se ne rendessero veramente conto, una radicale trasformazione che presto coinvolgerà tutte le persone del globo, una mutazione che ci sta già conducendo, per chi ha un po’ di immaginazione e sa guardare oltre l’immediato, ad un progressivo assottigliamento della differenza tra uomo e macchina, tra reale e virtuale, tra organico ed elettronico. Una mutazione già anticipata in tempi non sospetti, ovvero intorno agli anni Cinquanta-Sessanta in USA, dai principali autori della fantascienza, da Asimov ad Arthur C. Clarke fino a Philip K. Dick, che con il talento tipico dei maestri del genere (basti pensare ai romanzi profetici di Jules Verne), con le loro opere predissero avvenimenti futuri e sviluppi sociali della realtà che possiamo riscontrare nel nostro presente, applicando le opportune “lenti” davanti ai nostri occhi, troppo spesso chiusi, o sintonizzando la nostra mente sulla giuste “frequenze”, liberi da preconcetti o da visioni legate al passato.
Il tema della vendita delle informazioni è infatti divenuto oggigiorno di fortissima attualità, dal momento che quasi tutto quel che ci riguarda viene ridotto ad informazione: codici fiscali, dati anagrafici, acquisti su internet, ticket dei negozi, biglietti aerei, sono le cifre che ci inquadrano e ci identificano, e tutto viene accumulato in banche dati informatiche, dati che finiscono per codificare cosa mangiamo, come ci divertiamo, cosa compriamo, chi frequentiamo: in poche parole, chi siamo. Ecco che gli inquietanti scenari paventati dalla fantascienza, in particolare da quella cyberpunk, cominciano a sembrare terribilmente vicini, e reali, e spingono alla riflessione su temi importanti come la differenza tra l'uomo e la macchina, e la conseguente distinzione tra memoria umana e memoria digitale, essenziali in un mondo in cui la tecnologia invade sempre più il nostro quotidiano.
In Blade Runner di Ridley Scott, (tratto da un romanzo di Philip K. Dick), il primo vero manifesto cyberpunk visto al cinema, e insieme la prima pellicola che proponeva allo spettatore una riflessione sulla differenza tra organismi cibernetici e organismi biologici, gli innesti di memoria venivano forniti ai replicanti per fornire loro un cuscino emotivo, per dar loro un senso di appartenenza altrimenti negato dal fatto di esser nati adulti, senza il tempo di sviluppare emozioni e sensazioni gradualmente.
Perché nell’essere umano la memoria non è solo un accumulo di informazioni e di esperienze, ovvero di dati, ma dipende anche da tempi e modi con cui questi “input” vengono assorbiti dalla macchina centrale, dalla CPU che gestisce quella complessa rete che è il nostro cervello e il nostro sistema nervoso.
In tal senso, come detto giustamente in Ghost in The Shell di Mamuro Oshi, (pietra miliare dell’animazione giapponese e della fantascienza cyberpunk del 1995) si assottiglia sempre di più la differenza tra un organismo vivente, con il suo bagaglio di ricordi ed esperienze accumulate nel tempo, e un programma in grado di accumulare informazioni nella propria memoria digitale e di riutilizzarle ed elaborarle al momento opportuno.
Differenza molto sottile, a rifletterci bene, visto che il progresso scientifico ci ha dimostrato che anche noi esseri umani, come i programmi informatici, in fondo siamo basati su un codice, quello genetico: un pacchetto informazioni di base che ci identifica come esseri umani e ci permette di distinguerci dagli altri esseri viventi, siano essi scimmie, gatti o cavalli.
Non è difficile immaginare che in un futuro non troppo lontano il mercato dell’informazione digitale possa anche estendersi alle nostre memorie individuali, che i nostri ricordi, tradotti in immagini o filmati da apparati tecnologici sempre più avanzati, sempre più integrati nella nostra vita, e perché no, nel nostro corpo, possano servire a scambiare esperienze, memorie, persino sensazioni, con la facilità con cui oggi passiamo un brano di musica in mp3, un video o delle immagini.
Potrebbe allora svilupparsi un vero e proprio mercato dei ricordi, in cui come in Total Recall (Atto di Forza, 1990), tratto non a caso da un romanzo di Philip Dick, ditte specializzate mettono in vendita memorie di viaggi mai realmente fatti, ma altrettanto autentici di quelli da noi vissuti, con tanto di possibilità di assumere altre identità, avere relazioni extraconiugali, o vivere avventure spericolate senza dover affrontare le conseguenze e i pericoli della realtà.
Oppure individui disperati alla ricerca di un guadagno facile potrebbero scegliere di barattare i propri ricordi e usare il proprio cervello come una banca dati per contrabbandare informazioni, come faceva Keanu Reeves in Johnny Mnemonic; o ancora, potrebbero nascere società specializzate nel cancellare memorie per noi spiacevoli, per aiutarci a superare la morte di un congiunto, o la fine traumatica di una relazione amorosa, come fanno i due protagonisti Kate Winslet e Jim Carrey di quel visionario e poetico film che è Eternal Sunshine of The Spotless Mind, apologo fantascientifico sulla necessità del dolore e della sofferenza nei rapporti umani, come metro per la felicità, e sulla particolarità tutta umana di filtrare i ricordi in funzione di ciò che ci suggeriscono il cuore e il momento.
Fino a giungere alla inquietante e macabra ipotesi di The Final Cut, con Robin Williams nei panni di una sorta di sacerdote tecnologico, che lavora per conto di una ditta privata che impianta chip nella mente delle persone alla loro nascita per raccogliere i ricordi di una vita; il personaggio da lui interpretato ha il difficile e moralmente ambiguo compito di selezionare e montare dopo la morte dei “clienti”, in una cerimonia rituale chiamata Rememory a cui partecipano tutti i cari dello scomparso.
Tutti racconti di fantascienza che suonano probabili, se non possibili, e ci invitano a riflettere su quello che siamo e su quel che rischiamo di diventare, a non abusare della tecnologia anche se ci dà l’inebriante sensazione di poter controllare la sofferenza e il dolore.
Storie che ci spingono a riflettere sul potere dei ricordi e sull’immenso rischio dell’oblio, perché anche cancellando un solo ricordo, anche quello più spiacevole, rischieremmo di perdere la nostra identità e con essa la nostra umanità, la nostra capacità di odiare come di amare, di arrabbiarci come di sorridere.
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