Numero 15
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stampa questa pagina [versione printer friendly] L'oblio dell'emigrante italiano
Nella nostra società sempre più razzista e xenofoba tendiamo a dimenticare che siamo figli di emigranti che trovarono aspra accoglienza ma che ebbero anche la possibilità di costruire il loro futuro. In questo caso, la memoria dovrebbe aiutarci a fare un passo verso la tolleranza...
di Alessia Orsini
"…Ora dalle tavole imbandite con la memoria corta, addormentata abbiamo fretta di ricominciare dall'altra parte della barricata…" Da Noi, G. Bertelli - I. M. Zoppi
"Brutti, sporchi e cattivi", per citare un famoso film di Ettore Scola: è così che ci vedevano statunitensi, argentini, brasiliani, australiani, tedeschi. L’Italia, oggi luogo d’immigrazione, è stata per lungo tempo terra di emigranti che cercavano fortuna altrove, tra sacrifici e xenofobia. E la memoria storica è un valore fondamentale per rispolverare un secolo di emigrazione italiana rimosso dalle coscienze, affinché si possano costruire un presente e un futuro più solidali.
L’immigrazione italiana all’estero è considerata il più grande esodo dell’epoca moderna. Dal 1861 a oggi più di ventinove milioni di italiani sono espatriati per necessità, seguendo due grandi ondate: la grande emigrazione (o emigrazione americana), svoltasi tra la fine del XIX secolo e gli anni Trenta del XX secolo e durante la quale gli emigrati partivano in prevalenza dall’Italia settentrionale, e quella dell'emigrazione europea, che ha avuto inizio a partire dagli anni Cinquanta e che ha visto un massiccio movimento di meridionali. In termini numerici è come se una nazione intera si fosse spostata, tanto che al giorno d’oggi, a fronte dei circa cinquantasette milioni di persone che vivono nella penisola, ci sono almeno cinquantotto milioni di discendenti italiani residenti all’estero. Numeri imbarazzanti, se pensiamo che l'attuale immigrazione straniera in Italia ha dimensioni circa dieci volte inferiori.
Le storie e le stesse sembianze degli immigrati moderni sembrano ricalcare quelle dei nostri antenati. Proprio come i clandestini odierni, molti italiani approdavano ai nuovi lidi con visti di transito o permessi turistici fermandosi poi ben oltre la scadenza, oppure arrivavano con passaporti falsi o biglietti inviati da parenti e amici. I più onesti avevano biglietti transoceanici acquistati dopo anni di rinunce, non senza subire truffe e raggiri su entrambe le sponde dell’oceano. Infatti, se non morivano di stenti e malattie sulle navi – e se non venivano gettati in mare da spregiudicati “scafisti” – giunti a destinazione venivano poi sfruttati e costretti da imprenditori e agrari a massacranti turni di lavoro affinché ripagassero il costo del viaggio. Tra quelli che sbarcavano, solo una piccolissima parte erano lavoratori specializzati; perlopiù, erano braccianti o delinquenti senza scrupoli. Si estenuavano accettando paghe più basse degli operai locali, mandavano i numerosi figli a mendicare – quando non li vendevano direttamente – e le donne a prostituirsi, e vivevano di espedienti nei peggiori bassifondi, in sudice baracche accatastate tra i grattacieli, senza igiene né diritti fondamentali.
La stragrande maggioranza (circa il 70%) era analfabeta, gente molto più rozza e ignorante degli immigrati d’oggi. E particolarmente incline alla criminalità: gli accoltellamenti, le risse, le guerriglie tra poveri e la mafia erano pane quotidiano. Tanto che li chiamavano “dago” (da dagger: coltello, accoltellatore) o “mafia-mann” (mafioso, dal tedesco) per bollarne i comportamenti, esattamente come oggi facciamo nei confronti degli immigrati balcanici o nordafricani. Nel 1893, il console italiano in India riferiva che a Bombay tutti coloro che sfruttavano la prostituzione venivano chiamati “italiani”. In Brasile, gli italiani venivano considerati commercianti disonesti ed erano soprannominati "carcamano" poiché calcavano la mano sulla bilancia per alterarne il peso. A metà del Novecento, erano i rumeni a controllare le dogane per non essere invasi dai violenti italiani. E si potrebbe continuare all’infinito con esempi del genere. Basta ricordare che il numero di italiani nelle carceri superava quello di qualsiasi altra etnia, e nei primi del Novecento il New York Times adoperava queste parole: "L' italiano è un grande criminale. L' Italia è prima in Europa con i suoi crimini violenti. Il criminale italiano è una persona tesa, eccitabile, è di temperamento agitato quando è sobrio, e ubriaco furioso dopo un paio di bicchieri. Di regola, i criminali italiani non sono ladri o rapinatori: sono accoltellatori o assassini".
Era inevitabile che il degrado e la pericolosità di queste genti provocassero negli autoctoni disgusto, ostilità e timore. Il razzismo si manifestò in molte forme, accomunate dall’idea del degrado e della violenza indicate come un prodotto d’importazione, connaturato alla cultura e alla tradizione degli immigrati italiani. Innumerevoli sono le vicende di pestaggi o di omicidi, senza dimenticare le stragi: ad Aigues Mortes, in Francia, numerosi italiani furono uccisi con un banale pretesto da una folla di lavoratori francesi nel 1893; nella New Orleans del 1901 undici siciliani vennero assassinati con l’accusa di appartenere alla mafia. Additati come malavitosi, arretrati, sporchi e brutali, gli italiani subirono una vera e propria "caccia alle streghe" aizzata anche da giornali e radio, e non di rado pagarono per colpe mai commesse solo per essere marchiati come razza violenta; basti pensare alla storia degli anarchici Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, che nel Massachusetts del 1920 furono arrestati e poi giustiziati con l'accusa di aver commesso una sanguinosa rapina. Altri episodi ci ricordano che siamo stati anche terroristi: sempre nel 1920, il romagnolo Mario Buda – ancor prima di Bin Laden! – fece saltare in aria Wall Street con un carretto carico di dinamite; l’anarchico abruzzese Severino Di Giovanni piazzò una bomba nella cattedrale di Buenos Aires; nel 1933 il calabrese Giuseppe Zangara tentò di assassinare a Miami Franklin Delano Roosevelt, da poco eletto presidente degli Stati Uniti.
Proprio come oggi si tentano di elaborare leggi che frenino l’immigrazione in Italia, negli Stati Uniti – diminuito il bisogno di manodopera a basso costo – furono votate alcune leggi per arrestare l'insediamento dei "wop" (da without papers, con chiara assonanza con il termine napoletano guappo): il Quota Act del 1921 limitava il numero degli stranieri ammesso annualmente stabilendo delle quote per ogni nazionalità, e, di fatto, pose fine all'immigrazione italiana formalizzando il pregiudizio antimeridionale. Già nel 1912 una commissione parlamentare statunitense si esprimeva così sugli italiani immigrati: "I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere (…) Vi invito a controllare i documenti di provenienza e a rimpatriare i più. La nostra sicurezza deve essere la prima preoccupazione". In quegli anni, di noi dicevano "Bel paese, brutta gente"; forse è lo stesso pensiero covato con rabbia dai nostri immigrati odierni.
Sembra che noi macaroni moderni, che nelle piazze e nelle urne esigiamo sicurezza e legalità, abbiamo rimosso completamente il ricordo di questo grande esodo all’estero. Da poco è stato inaugurato a Roma il Museo Nazionale dell'Emigrazione Italiana, ma sui libri di scuola non c’è ancora traccia di questo fenomeno. C’è da chiedersi da cosa scaturisca questa ostinata amnesia, e la risposta più plausibile è: dalla vergogna degli emigranti stessi, una volta tornati a casa o costruitasi una vita decente altrove. Perché non vogliono che i propri figli conoscano l’onta di aver fatto la fame, o perché non accettano di scorgere nei volti dei clandestini lo stesso sguardo che avevano i propri padri. La negazione di questa triste storia rispecchia il desiderio di rimozione, il quale è esternato con maggior veemenza proprio in quelle zone d’Italia dove l’emigrazione è stata più consistente e recente. E l’aumento del pregiudizio e del razzismo in queste regioni è direttamente proporzionale al rifiuto della memoria.
In questa società xenofoba che ha deliberatamente cancellato parte del suo passato, la chiave di svolta per un futuro migliore sarebbe assumere che l’emigrazione è un fenomeno che si ripete all’infinito, senza limiti di tempo e di spazio, e che l'espatrio per necessità ha caratteristiche simili in ogni epoca e nazione. E per farlo è necessario riprendere il filo di questa dolorosa memoria, scavare nel ricordo dei nostri padri miserabili e umiliati, per comprendere che il diritto a un’esistenza dignitosa è comune a tutta l’umanità e per rivalutare il senso di una storia che non conosce fine.
Letture consigliate: Gian Antonio Stella, L'orda. Quando gli albanesi eravamo noi, Rizzoli, 2003 Gian Antonio Stella, Odissee. Italiani sulle rotte del sogno e del dolore, Rizzoli, 2004 Edmondo De Amicis, Sull’Oceano, 1889 http://www.pelagus.org/it/libri/SULL%27OCEANO,_di_Edmondo_De_Amicis_1.html Piero Colaprico, Manuale di sopravvivenza per immigrati clandestini, Rizzoli, 2007
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