Numero 11
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stampa questa pagina [versione printer friendly] Declinazioni letterarie
Roberto Carvelli è giornalista e scrittore. È riuscito a fare della sua passione un mestiere. Qui ripercorre anchela genesi della sua guida, Perdersi a Roma, che mescola luoghi geografici a suggestioni narrative. Grazie all'incontro con un editor è nato un sodalizio che ha generato un felice prodotto editoriale. Ma Roberto ha anche un'altra passione: i racconti...
di Alina Padawan
Tu scrivi da molti anni ormai. Ci racconti il tuo percorso formativo, fra giornalismo e narrativa? La prima cosa in assoluto che ho pubblicato credo fosse un’intervista a Tonino Guerra l’oggetto-soggetto del mio lavoro di tesi. Poi subito un raccontino. Ho pubblicato per un po’ su riviste racconti e su giornali recensioni e interviste. Quindi, da subito, i due piani – quello della fiction e quello del reportage o del pezzo giornalistico in genere – hanno viaggiato insieme. Questo mi ha permesso di tenere un’equidistanza e piani di scambio, o, al massimo, zone di confine da valicare spesso tra quelle aree in genere pensate per differenza.
Il racconto è un genere spesso bistrattato in Italia. Ingiustamente. Perché, secondo te? Perché il nostro è un pubblico da fuga e il racconto per la sua brevità non garantisce abbastanza stacco dal reale. Gli editori lo sanno e non rischiano. Eppure il racconto secondo me si presta proprio per la sua fulmineità all’esperienza – la direi quasi mistica – di un contatto breve ma intenso con l’oggetto della sua rappresentazione (cioè la Vita, cioè il Mistero, cioè il Reale, cioè quello che vi pare sia la Letteratura). Ma forse qui siamo in una “smalizia” che ha chi legge. Chi legge poco cerca l’offerta speciale: i dieci rotoli di morbidezza, la confezione famiglia, le 500 pagine del giallone in cui affogare tutte le frustrazioni della vita (quella con la v minuscola). Fugare, affogare: come vedi abbiamo usato parole di emergenza. La letteratura – che pure vive l’emergenza - la vive in senso diverso. Il punto mi sembra debba essere una forma di educazione che l’editoria generalista come la TV non è disposta a fare a meno che non sia la grande critica a suggerirglielo garantendo per lei (una garanzia che in ultimo significa: faremo uscire tante recensioni, ne parleremo come un caso ecc). Solo in quel caso una raccolta di racconti può sperare. Ma è un errore: spesso si leggono romanzi inconsistenti, come si dice nel cinema “gonfiati”. Meglio sarebbe leggere una bella raccolta di racconti.
E i tuoi racconti? Da dove attingi per l'ispirazione? Il pozzo a cui si attinge è sempre quello che sappiamo o pensiamo di sapere o immaginiamo sia. Non posso non dire quindi – per continuare con la metafora del pozzo – che la corda siamo noi. Ma se abbiamo corda lunga peschiamo in un bacino meno asfittico. Il punto è come allungare la corda. Secondo me la corda si allunga mantenendo uno spirito vivo, uno sguardo aperto, una visione delle cose sempre curiosa, leggendo molto (in tutte le epoche e in tutti i continenti senza accorciarsi su una scuola, un genere, un editore) e scrivendo tanto. Aumentando l’insoddisfazione positiva per quello che si fa. Senza accontentarsi e senza i “buona la prima” che alle volte ci vengono con troppa emotiva spontaneità per quello che abbiamo scritto.
Hai anche pubblicato una guida molto fortunata, Perdersi a Roma, guida insolita e sentimentale. Secondo te perché ha avuto questo successo? Pare anche sia stata copiata... Il successo credo fosse (sia) dovuto al fatto che quando è uscita c’era una certa attenzione – specie a Roma – per il racconto della città. C’era stata la rivista Accattone e c’erano le pagine di Repubblica in cui scrittori cercavano di dire la città con la loro valigetta di attrezzi. Io non ho partecipato alle due esperienze, ma vivevo da anni la stessa temperie nella mia solitudine un po’ emarginata. Avevo infatti raccolto interviste a scrittori seguendo un’idea spaziale di Roma per un editore con cui poi il progetto è sfumato, non se ne è fatto più nulla. Ma io ho continuato a lavorare, finché ho incontrato un editor (Daniela D’Angelo) e ne abbiamo parlato. Le interviste rappresentano una parte del libro, ma a partire da quelle, il progetto si è esteso; a poco a poco ha cambiato e definito meglio la sua fisionomia. Ragionando sull’idea il libro mi è cresciuto attorno, scrivendo e facendo ricerca. Ha trovato un senso più pieno in cui la dimensione spaziale via via è evaporata per lasciare tracce meno “localistiche”. La città è diventata città di dentro, la mia città interiore e in parte la città interiore tout court. E il modo per conoscerla un disargine a cui allude il titolo. A parte un testo “particolare” di Tiziano Scarpa su Venezia c’era stato poco o, soprattutto, l’idea della guida letteraria per quanto reclamata sembrava essere rimasta impigliata nelle maglie pittoresche (e retro) dell’Ottocento. Era la scoperta dell’acqua calda, forse, ma una scoperta che è sembrata rispondere ad un bisogno, a un’attenzione. Un’attenzione che - era ovvio - non è sfuggita ad altri editori o scrittori. Non posso dire che la guida “d’autore” sia diventata un genere ora perché ovviamente già lo era, ma è diventata un genere adesso con una visibilità nel mercato. Non parlerei di “copiare” né – la moda ce lo ha insegnato – si può pretendere di imporre una marca al taglio degli abiti, o ai colori di stagione. Forse basterebbe che la marca diventi una “tendenza” riconosciuta. Ma questo è compito della critica, dei giornali che invece sono spesso al servizio di altro o si interessano a quello che si vogliono interessare, a quello che gli è più vicino. Non si tratta di andare a dire un infruttuoso “primooooo” come un tana libera tutti – tanto più se le regole del gioco le scrivono o le riscrivono altri – basterebbe attendersi quest’attenzione pulita, quest’osservazione disinteressata da parte di chi sta lì con un compito e una responsabilità precisi: raccontarci quel che succede intorno ai libri.
Sembra che il modo di raccontare a volte sia più importante della trama stessa. Se qualcuno scrive bene, allora anche la storia di come fa la sua lavatrice può diventare interessante... Certo la Letteratura è questo – uso la tua metafora – fare della lavatrice racconto. Scrivere bene non per forza deve significare essere forbiti ma avere cose da dire, ecco perché spesso funzionano i libri-esperienza. Penso agli Archivi dei diari, al libro di Rabito (per citare uno degli ultimi frutti del progetto “autobiografia”), delle bellissime lettere della Resistenza.
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