Numero 11
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stampa questa pagina [versione printer friendly] Innovare o Restaurare?
Comunicazione e lingua italiana contemporanea. Un'area intorno alla quale ruotano teorie, scuole, tendenze. Anche perché le aziende, a un certo punto, capiscono che devono farsi capire. Un piccolo viaggio all'interno dei mutamenti linguistici e degli approdi nell'era delle nuove tecnologie.
di Antonio Dura antonio@dura.it
Scrivere libri, articoli giornalistici, slogan pubblicitari, era, fino agli anni ’70, come andare in banca: Un mondo fatto di presentazioni, di garanzie, di obblighi e obbligazioni. Ma se l’affidamento del denaro rimane ancora alla consegna delle caute menti di affabili direttori e cassieri, saldamente sorrette da rigorose procedure di analisi, la scrittura, invece, scivolata via dalla penna dei saggi editori, dei responsabili direttori delle testate giornalistiche e degli attenti pubblicitari, è amministrata dai cervelli della new economy, con la loro cultura da “tecnici hardware”, con la loro lingua asciutta come la testata di un motore di ricerca.
Intanto, la comunicazione si è trasformata da accessorio di lusso a funzione aziendale essenziale, indispensabile per l’affermazione di ogni organizzazione economica nel proprio settore. Così la necessità, di comunicare la propria immagine su internet, ha spinto, prima i produttori di servizi, poi i produttori di beni, infine molti “professionisti”, ad affidare il proprio messaggio a chi fosse capace di mettere on line una pagina web, spesso compilata con tratti grafici e contenuti impersonali, piuttosto che a chi sapesse scrivere la efficace definizione di un bene o di un fatto e, allo stesso tempo, persuadere l’utente con l’uso di sapienti sonorità e clinamen linguistici.
Eravamo nel periodo in cui esperti – opportunamente reclutati – affermavano che, entro pochi anni, tutto sarebbe stato fatto attraverso la “rete”, si imponevano all’attenzione del mondo le nuove professionalità dell’Ict, i creativi della scrittura e dei segni grafici – low-tech venivano messi da parte a forza di furiosi copia-incolla di modelli e di contenuti la cui unica novità era essere in rete.
La rapida crescita di queste nuove compagnie di comunicazione ha presto sottratto ai comunicatori professionisti, comunque colpevoli della scarsa attenzione inizialmente rivolta a questo mezzo, la possibilità di continuare a controllare Chi potesse scrivere, le qualifiche e le qualità per questo necessarie, la uniformazione deontologica degli autori alla necessità di utilizzare forme di rappresentazione linguistica corrette. Certo, non è un mondo che si contrappone ad un altro, la gamma dei grigi è piuttosto ampia e sicuramente poggia sui mezzi radiofonici e televisivi, sui giornali e sulle riviste a basso costo culturale, ma, volendo utilizzare una tavolozza a 16 colori, il dato da rappresentare è proprio questo.
D’altra parte, all’interno di queste stesse garage company di sviluppatori, ricercatori e smanettoni del web content, la consapevolezza di poter incidere con tanta forza sul linguaggio della comunicazione è giunta soltanto dopo più di un decennio di attività, svolta mirando a traguardi affatto diversi, è giunta soltanto quando ci si è accorti dell’effettivo impatto, in tal senso, di internet, non soltanto sul pubblico giovane, ma sull’individuo di età media, sulla fascia che occupa i posti di capofamiglia, di capoufficio, di imprenditore, di capo del governo.
Anche i gruppi finanziari e politici che hanno favorito la bolla hi-tech, per creare il denaro dal nulla o per gonfiare il P.I.L., troppo preoccupati a pianificare e gestire l’operazione economica, non hanno pensato o non hanno voluto pensare alle conseguenze culturali di un fenomeno che, proprio perché basato sulla necessità di far emergere, da un quadro credibile di conve¬nienze economiche, una classe di imprenditori privi di qualità effettivamente superiori al¬la media, ha travolto gli equilibri, già instabili, dell’editoria e della comunicazione tradizionali, senza offrire, neppure come visioning, né la continuazione, né la valida sostituzione dei contenuti e dei metodi garantiti e implementati da questa categoria che, invece, aveva conquistato i propri mercati nell’ambito di un sistema selettivo e, con le dovute eccezioni, meritocratico.
Allora, se non v’è alcun dubbio che l’Information and Communication Technology sia fondamentale per la crescita della produttività, se appare consolidato il ruolo conquistato dai nuovi media nello sviluppo della nostra lingua, qual è il compito a cui chiamare (o, già, richiamare) i guru della composizione linguistica, i professionisti della comunicazione che hanno poggiato e poggiano i propri modelli espressivi su Leonardo Sciascia, Italo Calvino, Pier Paolo Pasolini …? Qual è il futuro dell’italiano nella formazione di un linguaggio internazionale unificato che, pure dovendo transitare dalla volgarizzazione esogena dell’inglese (il global-english), possa elevarsi ad una struttura completa nell’offerta lessicale, nelle possibilità sintattiche, nell’articolazione sonora e nella identità semantica? Quanto sono importanti i nuovi sistemi di telecomunicazione scritta hot-swap come gli sms e le chat, nella parte in cui permettono ai conversatori di leggere e rileggersi?
Bene ricominciamo dagli anni ‘70: «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà, l’inferno dei viventi è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo viene facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.» (Italo Calvino, Le città invisibili, 1972).
Il viaggio di una lingua è fatto da ricordi di strade già percorse, di luoghi presenti, di strade e luoghi da percorrere e visitare. Il dovere dell’intelligenza linguistica italiana è dare spazio alla nuova scrittura, credere nella possibilità di avviare un processo eclettico per la formazione di una lingua internazionale, che, utilizzando l’inglese come telaio di riferimento, riesca a modellare un corpus glottologico armonico, con la materia, spesso durissima, delle lingue europee e in sincrono con l’evoluzione in corso. Se i driver dello sviluppo economico, non solo nazionale, percorrono la strada delle telecomunicazioni, occorre intervenire sui relativi programmi d’istruzione e sui modelli linguistici di riferimento.
Questo è possibile perché le compagnie che governano le tecnologie della comunicazione e della informazione hanno perduto, del tutto, la spinta propulsiva di inizio secolo e a fronte di un moderato trend positivo – comunque addebitabile al solo ramo industriale del comparto – devono registrare un restringimento del mercato a cui consegue una spiccata competizione settoriale. Si fa spazio, finalmente, anche in questi consigli d’amministrazione “in remoto”, una nuova conoscenza: per consolidare e sviluppare il fatturato è importante anche saper scrivere e saper disegnare. Per questo, vengono recuperate quelle stesse professionalità che sembravano ormai destinate a scomparire: giovani scrittori, letterati, filosofi e filologi, perché l’arte rimane – è sempre rimasta – l’unica fonte incorruttibile dell’estasi umana, la gratificazione dell’anima dopo l’appagamento del corpo, perché, dietro le web-cam, c’è ancora l’uomo che nonostante i goffi tentativi di comunicare con tutto il mondo, nonostante sia disposto a diventare – per qualche momento – un globischer, ha sempre la necessità di esprimere nel migliore modo possibile i propri sentimenti.
La scrittura italiana può essere riempita di termini inglesi hi-tech e sigle come è stato fatto, in modo un po’ provocatorio, in questo articolo ma, anche qui, se ci pensate per un momento, ci sono schemi e parole che possono, devono, riempire un po’ questa nuova lingua che deve nascere.
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