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stampa questa pagina [versione printer friendly] In cerca del nuovo
Alberto Castelvecchi non ha certo bisogno di presentazioni. È un uomo instancabile, sempre alla ricerca del nuovo e della sperimentazione, molto attento alle ramificazioni e alla “multimedialità” della scrittura, intesa come melting pot di stili e forme differenti. Qui ci spiega la sua visione del panorama editoriale e i nuovi orizzonti della narrativa...
di Lorenzo Bianchi
Alberto, parliamo del nuovo panorama editoriale italiano dal punto di vista della scrittura. Come lavorano i giovani autori di oggi, soprattutto se confrontati con gli scrittori del passato?
Bisognerebbe citare Sigmund Baumann per rispondere a una domanda di questo tipo. La situazione della scrittura è molto fluida, in evoluzione, quindi è difficile dare una risposta univoca. Si può dare un risposta che fotografi lo stato presente, quello che sta accadendo in questi mesi, addirittura in questi giorni. Ci sono giovani che continuano ad accostarsi alla scrittura con un percorso di auto-apprendistato molto duro e tradizionale, scrittori che considerano lo scrivere ancora il frutto di una bildung, come si diceva in tedesco, ovvero costruzione non tanto della scrittura quanto della propria personalità, e che quindi affrontano tutto il percorso di formazione e autoformazione tradizionale.
Questi ultimi hanno, nel confronto della pagina, un rapporto costruito, colto, meditato: è una tipologia di scrittura più presente di quanto si pensi. Faccio un esempio: ricevo ogni anno circa millecinquecento proposte di romanzi, racconti, e i due terzi di queste produzioni sono, diciamo così, letterarie, tradizionali, anche quando chi scrive ha ventritre, ventiquattro anni. Questa tuttavia è solo una parte della realtà: un altro versante più mobile, interessante, è dato dalle scritture "altre", o irregolari. Quelle non canoniche, che nascono in un contesto diverso dalla letteratura ma che finiscono poi per intersecare la letteratura e fertilizzare il terreno letterario.
Oggi si parla di crossover: è diventata quasi una moda intellettuale, tra moda e arte, arte e costume, arte e informatica. In questo caso la letteratura è continuamente sollecitata da forme di crossover, apparentemente spurio, ma molto interessante. C’è stata la generazione dei blogger, che ha avuto un impatto fortissimo: abbiamo assistito a un'enorme quantità di giovani che si sono dedicati alla scrittura diaristico-intimistica. E qui accade una cosa importante, non tanto per il formato della scrittura quanto per il format: improvvisamente ci siamo trovati davanti alla nascita di migliaia, anzi milioni di io-narranti che lavorano sulla misura media del post, che più o meno si attesta sulle otto, dieci, venti righe e riceve, in forma dialogica, le risposte dei lettori in forma di altri post.
Quindi la continuità del discorso di chi posta è costantemente interrotta e intersecata da quella dei commentatori. Questo fa sì che ci sia da un lato una dimensione molto intimistica, da un altro molto corale. Pensare che fino a due anni fa si diceva che la scrittura sarebbe entrata in eclissi, che avremmo smesso di scrivere, e mai previsione fu più sbagliata, perché in realtà c’è un’enorme prevalenza di scrittura in chi fa uso della rete. Ed è una scrittura che ha una sua propria cultura intimistica basata sulla brevità, ma nel contempo anche sulle caratteristiche di oralità, cioè di spontaneità, di immediatezza, di mancanza di progetto sintattico, molto fluida e liquida. Una scrittura orale-scritta o scritta-orale davvero molto interessante.
Ha parlato di web e blog. Ovviamente queste nuove forme di espressione hanno cambiato il modo di rapportarsi alla scrittura. Cosa differenzia un Tolstoj, per fare un esempio, da uno scrittore di oggi? L’avvicinamento alla scrittura e lo scrivere stesso sono rimasti invariati? Tutta “colpa” delle nuove tecnologie, o c’è dell’altro?
È importante non cercare una colpa nel momento in cui i blog o il web impattano sulla scrittura letteraria. Il romanzo è sempre stato una forma cannibalica, ha cannibalizzato la radio, la televisione, il i reportage di inchiesta... pensiamo al new journalism, a Truman Capote, Tom Wolfe, che erano giornalisti-scrittori, scrittori-giornalisti. Però alla fine il romanzo è veramente una grande chiesa dal colonnato molto alto e molto largo, sembra la piazza San Pietro delle idee. Dentro il romanzo abbiamo visto arrivare la cultura epistolare e romantica dell’ottocento, la sociologia...Mi viene in mente il realismo di Balzac, il realismo lucido, delirante e confessionale di quel pazzoide di Tolstoj, che aveva questa grande mentalità epica: Tolstoj è uno scrittore di epos, se si fosse espresso ai tempi di Omero avrebbe usato il poema epico ma in realtà utilizza la forma del romanzo. Quindi, in sé, il romanzo è una forma spuria, e altrettanto spurio è l’uso del romanzo che faceva Dostoevskij con il monologo del Grande Inquisitore: una forma di monologo pazzoide, di delirio lucido inserito all’interno di un piano narrativo, così tanto quanto lo sono oggi i blog che utilizzano la forma diaristica per fare un romanzo.
Non dobbiamo pensare che quest’ultimo abbia una dequalificazione. Il romanzo è uno di quegli animali mutanti, che si adatta all’ambiente circostante riuscendo a farci ritrovare il filo qualunque sia il media che sta cannibalizzando. Abbiamo avuto per anni dei romanzi che sembravano dei reality show televisivi. Pensiamo al modo in cui Bret Easton Ellis porta, in American Psycho, il mondo della moda, delle marche, del feticismo delle merci nell’impianto del romanzo. Abbiamo avuto romanzi che hanno cannibalizzato non solo il thriller ma anche il film horror.
Il romanzo è la forma più mutante ed è veramente un virus opportunista. In biologia si dice che i virus mutanti sono quelli che prendono la forma di una febbre o di un mal di testa, dipende da quello che conviene, sono quello che vogliono loro o quello che vuole l’ambiente circostante. Per l’ennesima volta, quindi, assistiamo a un cambiamento di progetto nei romanzieri. Per me è molto interessante vedere che, per esempio, il respiro di mezza pagina finisce per contaminare tutto il nostro modo di narrare.
La sua casa editrice come si pone? Attingete da queste nuove forme? Mi viene in mente il caso di Pulsatilla…
Finora ho parlato più come un "trendologo" e uno studioso di comunicazione che non come un editore. A questo punto, giustamente, una persona si potrebbe chiedere quale tipo di atteggiamento dovrebbe avere un editore che cerca di selezionare contenuti e talento. Ho sempre sostenuto anche in dibattiti pubblici che è abbastanza sciocco, per quanto mi riguarda, pensare che siccome esistono i blog sia improvvisamente possibile trasporli sulle pagine dei libri. Sono molto contrario a quelle case editrici che trasferiscono in presa diretta i blog nella forma cartacea. Non è espiantando il blog e trasportandolo su pagina che otteniamo qualcosa, ma è ispirandoci a quella modalità di scrittura con autori che trovano, tramite il blog, una sorta di trampolino di lancio. Successivamente possiamo ottenere qualcosa portandoli sul terreno della letteratura e facendogli scrivere un libro. Nel caso di Pulsatilla, il processo creativo-letterario è stato esattamente questo: noi abbiamo intercettato una giovane donna che scriveva, e scrive, benissimo. Mancava però quel sentimento di costruzione e di impalcatura che il blog non poteva avere. Abbiamo parlato a lungo con Pulsatilla, si è fatto un progetto insieme, il libro è stato seguito capitolo per capitolo per far sì che, pur mantenendo l’ immediatezza stilistica del blog, molto corale e comunicativa, empatica con il pubblico, venisse inserita nella struttura narrativa di un romanzo. Probabilmente gli esperimenti migliori sono proprio quelli in cui il crossover è reciproco: non è semplicemente il blog che sbatte sul romanzo, è anche quest’ultimo che si appropria del blog e ne fa un’altra cosa.
E qual è il compito degli editori? Prima di tutto quello di selezionare il talento: ci sono 500.000 blog su Splinder, oppure non so quante milioni di pagine My Space. Ho una grande riserva di caccia. Ma la selezione del talento rimane pur sempre una prerogativa di chi fa l’editore. In seconda istanza, c'è costruzione di formati narrativi. Non molti lo sanno, ma in casa editrice si costruisce con lo scrittore la struttura del libro. Ci sono tante opportunità quanti sono i pericoli nell’universo della rete.
Nel caso di Pulsatilla siamo stati fortunati perché il libro è venuto molto bene, ed è un prodotto che ha risentito in senso positivo di queste caratteristiche di attraversamento. Siamo rimasti a metà: il blog non è diventato completamente un romanzo in senso “balzacchiano” e nemmeno Gli indifferenti di Moravia. Trovo molto affascinante questo sforzo di ibridazione che produce spesso dei documenti letterari abbastanza spuri e irregolari. In casa editrice, tra il ‘93 e il ’95, ci siamo accorti che la generazione di quelli che allora avevano trenta anni, più vecchi di quindici anni di Pulsatilla, si stava cominciando a interessare di autoproduzioni, di musica elettronica, insomma si stava guardando intorno e cercava di reagire con la forza del linguaggio letterario al mercato delle merci, alla vittoria del feticismo merceologico. Peraltro si parla di una generazione violentemente “giapponesizzata”, nata sull’anime e sui manga. Tutti questi codici, anch’essi una forma di inquinamento della letteratura, come lo sono oggi i blog, affascinavano enormemente quella generazione: se prendiamo Tiziano Scarpa, Aldo Nove e Isabella Santacroce (gli ultimi due li abbiamo lanciati noi, il primo Einaudi), percepisci quel rinnovamento di stile e di linguaggio dato dal fatto che il formato, il brainframe, come lo chiamerebbe Derrick de Kerkhove, il quadro mentale, quasi psicocognitivo, neurologico della televisione entra nel romanzo. Era la cosiddetta generazione dei cannibali.
Con la generazione dei blogger siamo a un secondo appuntamento. Personalmente mi sto già spostando in un nuovo territorio: sto seguendo molto da vicino il fenomeno del keitai: ragazzini che scrivono sulla tastiera del telefonino, che in Giappone hanno quasi tutti lo schermo orientabile (sono macchine più perfezionate delle nostre). La cosa interessante è che loro scrivono sul telefonino per altri telefonini, poi caricano il testo su un portale internet, e a loro volta molte persone lo riscaricano sul cellulare e se lo leggono. Quindi è una letteratura che nasce in movimento, passa attraverso questa specie di portali e viene smistata sui telefonini. Perché è interessante questa forma di scrittura sui cellulari? La dimensione dello schermo, il tipo di attenzione percettiva che ha l’occhio, la situazione emotiva di chi legge un sms sono diversi da quelli di chi legge il blog seduto comodamente davanti al computer. Questa letteratura per sms, o nuova letteratura cellulare, è secondo me molto interessante. In Giappone è gia diventato un fenomeno di mercato notevolissimo, perchè Rin, una ragazza di ventun anni che ha scritto un romanzo per cellulare lo ha poi pubblicato su carta con la casa editrice Tohan, ha venduto 500.000 copie. Forse in Italia non nascerà mai una vera letteratura per cellulare, anche se i contenuti su telefonini cominciano a diventare poesie, poesiole, aforismi, brevi racconti, barzellette. Esiste un folklore “telefoninico” per intenderci, però sono quasi certo che il linguaggio spezzato, singhiozzante e cifrato degli sms impatterà in maniera significativa su quel grande cannibale che è il romanzo.
Possiamo già osservarlo in forme di produzione pop: se prendiamo il linguaggio dei libri di Federico Moccia si capisce che sono fatti per una generazione la cui lunghezza d’onda è più quella della comunicazione mobile, di sms, che non di quella del computer. Perché dico che è il telefonino e non l’e-mail o il blog la prossima fase? George Gilder, un grande studioso di comunicazione, parla del teleputer, più del computer di come lo conosciamo noi, quindi il pager, il libro portatile, l’I-phone, come nuova frontiera: la moda spesso trasmette dei segnali deboli, quello che ci sta trasmettendo adesso è che i ragazzi di quindici anni considerano demodé, burocratico e fastidioso scrivere delle e-mail. Loro non si scrivono e-mail, quelle le scrivono i grandi in ufficio: si inviano sms oppure scrivono dal computer di casa, sulla chat per esempio.
L’e-mail è veramente ritenuta "burocrazia". Mentre negli anni novanta abbiamo avuto dei romanzi che, in maniera un po’ rivoluzionaria, invece di citare gli epistolari citavano le-mail, abbiamo visto anche dei romanzi epistolari fatti di e-mail. Quindi la mail veniva concepita come un nuovo strumento espressivo. Non più un romanzo epistolare, non più la citazione di una lettera, ma la citazione di una mail o un romanzo epistolare di e-mail. Adesso quest’ultimo è superato: sono molto curioso di vedere cosa succederà con questa generazione del keitai.
Sentendola parlare delle nuove frontiere della produzione letteraria mi è venuta una curiosità. È sparita l’immagine del romanziere del passato, che magari la notte si mette a scrivere su un foglio di carta, oppure c’è posto per il “classico” e il nuovo?
C’è spazio per entrambi. La letteratura quando arriva è pur sempre un fatto di... "via del cuore". Via emotiva, non razionale. Quindi in qualche modo lo scrittore è sempre uno che, qualsiasi forma utilizzi, telefonino, blog, libro, rotolo di pergamena, ti prende per mano e ti racconta una storia. La funzione emotiva dello scrittore si trasforma, la qualità fa la differenza. Magari non si mette lì con il calamaio e la candela, magari si mette lì tutte le notti sul suo blog e riempie le pagine con la certosina volontà di metterci un pezzo di anima. Prima lo scrittore, come Manzoni, diceva “i miei venticinque lettori”, oggi lo scrittore dice i miei “cento contatti al giorno”. Ma non è cambiato molto.
C’è un altro aspetto da tenere presente: vorrei fare un passo indietro agli anni Novanta. In quegli anni si pensò improvvisamente a una funzione spersonalizzata della musica, perché la musica elettronica, e penso ai Chemical Brothers, i Daft Punk, il big beat, i Prodigy, tutti i generi anche più estremi dell’elettronica, facevano sì che la macchinalità e l’automaticità della battuta a 180 se non 240 bpm, rendesse ormai obsoleta la figura dell’artista che canta con la sua voce roca, la sua chitarra, il capello un po’ sporco e l’occhio triste e malinconico. La reazione è stato il grunge, nato affiancando la musica elettronica. E i ragazzi volevano solo avere un maglione slabbrato anni Settanta, i jeans strappati, la chitarra e la voce piena di malinconia e pianto come Kurt Cobain. Apparentemente la figura dell’artista, come uomo sentito, persona sofferta, era completamente superata da questo grande circo della musica elettronica, che è stato interessantissimo: i Chemical Brothers sono stati tra le muse degli anni Novanta. Invece è tornato vivo l’esistenzialismo crudo dell’artista che addirittura si uccide per incapacità di stare al mondo. Cobain era un’artista straordinario, in cui si è incarnata completamente una generazione. Quando è morto Kurt Cobain la gente voleva buttarsi dalla finestra. Quindi, anche adesso noi abbiamo il sospetto che la macchinalità e la superficie fredda fatta di pixel della rete, del web, anche del web 2.0, aboliscano la centralità dell’artista. Questo discorso dell’impersonalità, della fine dell’artista e dell’arte fu postulato da Hegel e siamo qui ancora a parlarne.
In realtà, proprio guardando all’oggi, e facendo un passo verso il domani e il dopodomani, quando noi vedremo transitare sempre più spesso contenuti intimistici via telefonino, quindi con un nuovo strumento che sta direttamente incollato al palmo sudato della tua mano, vedremo scorrere ancora emotività. L’io dell’artista non si esprimerà più a lume di candela, magari si esprimerà alla luce dello schermo di un telefonino, ma l’impatto emotivo è e sarà enorme. Se la giovane Rin ha venduto 500.000 copie del suo romanzo è perché aveva già una community, ed è forse questa la parola nuova, non c’è più il cerchio dei lettori ma la community. Oggi quindi lo scrittore si misura prima con la dimensione della community, poi esplode sul mercato. Ma questo non toglie la centralità all’artista, e a quello che l’artista ha da dire. Guardiamo cosa si faceva quando si raccontava Omero e la sua guerra di Troia attorno a un fuoco, con la gente che piangeva. E poi il menestrello folk irlandese, il trovatore provenzale, Matteo Maria Boiardo, i grandi narratori ottocenteschi... io ho avuto la mia adolescenza in parte sedotta e abbandonata,in parte rovinata, in parte magnificata dai soliti Dostoevskij, Tolstoj, dal realismo francese, Ida talo Svevo, dai romanzieri più marci e maledetti fino agli ultimissimi come Bret Easton Ellis e compagni: sapevano e sanno prenderti per mano. I narratori continueranno a farlo. Il fatto che l’aedo omerico utilizzasse come supporto soltanto la memoria e la voce e i trovatori adoperassero la voce, la memoria, gli strumenti, le canzoni e la pergamena, mentre noi oggi usiamo il telefonino, la disposizione dell’umanità a produrre e a sentirsi raccontare storie, insomma la narratività, non è mai venuta meno. Dove c’è narratività, c’è letteratura, e viceversa.
Chi legge in questo momento in Italia? Ci sono degli autori italiani che secondo lei, scrivono bene, hanno un linguaggio innovativo?
Scrivere bene ed essere innovativi sono due elementi che non sempre vanno d’accordo. Personalmente ho un grande rispetto per la scrittura di Baricco, che non è il mio autore preferito, ma stimo molto la sua capacità. Mi sembra che sia bravissimo Sandro Veronesi, e credo che Marco Lodoli sia ancora uno scrittore coi fiocchi. Personalmente ritengo che di quella generazione uno dei più bravi sia Emanuele Trevi, perché ha una grande capacità di entrare in contatto con il mondo.
Mi sembra che Isabella Santacroce, che ha pubblicato un libro con me, e diversi libri con altri (dunque non parlo per motivi di scuderia) abbia una marcia in più sul piano della novità del linguaggio, della capacità di produrre una pagina nuova carica di senso. Stimo enormemente il lavoro di un’autrice che è completamente agli antipodi rispetto all’attitudine linguistica sperimentale, una scrittrice molto femminile, Chiara Gamberale, di cui è uscito da pochi giorni, per Bompiani, La zona cieca. Mi sembra poi che l’impianto neopasoliniano di Walter Siti in Troppi Paradisi, pubblicato da Einaudi, sia sinceramente stupefacente. Siti è riuscito a riprendere il verismo del dialetto coatto romanesco con la stessa dolorosa essenzialità con cui Pasolini lo faceva quarant’anni fa. Lui rappresenta i coatti fascisti di adesso, Pasolini i coatti spaesati di allora, ma c’è la stessa stupefacente capacità di affrontare la cosa e metterla sulla pagina. E poi ha l’enorme abilità di rappresentare una specie di cena di Trimalcione, dove c’è tutto, queste satrapie corrotte, la corruttela televisiva, le soubrette che per lavorare vanno col produttore.
Inoltre amo molto lo sperimentalismo e sia Siti che la Santacroce sono bravissimi in questo senso. Chi ha saputo rinnovare il grande romanzo borghese dell' ottocento-novecento con strumenti nuovi è Alessandro Piperno: Con le peggiori intenzioni mi sembra un esperimento eccezionale. Lui è un grande scrittore. Se però mi chiedi quali autori preferisco come attitudine, allora dico gli sperimentalisti. Essendo sulla stessa linea di Gianfranco Contini, ho sempre amato Gadda, Pizzuto, Pasolini, Arbasino, Svevo, tutta la dimensione linguisticamente più commista, sporca, anche se magari meno elegante.
Lei ha parlato di sperimentazione, cosa che con Pulsatilla le ha dato ragione. Ci sono stati altri casi in cui avete rischiato con successo?
Sì. Abbiamo avuto ragione anche con Aldo Nove e Isabella Santacroce: teniamo presente che quando ho pubblicato Pulsatilla, nel 2006, mi è stato detto più volte che non si trattava di letteratura. Ciclicamente continuo a produrre cose nuove e magari quando pubblicherò il primo esempio di letteratura Keitai ci diranno ancora che non è letteratura. Ma i critici esistono anche per essere smentiti.
Nel vostro caso quindi sperimentare ha pagato. Tuttavia il libro che ha tirato di più negli ultimi due anni è stato Gomorra, un libro di inchiesta. I libri di Marco Travaglio, per fare un esempio, vanno benissimo. Il mercato, e il pubblico cosa chiede effettivamente? Sono pronti ad accettare il nuovo oppure il mercato è ancora “classico”, che magari ha più interesse a conoscere certi argomenti, piuttosto che leggere esperimenti narrativi?
Teniamo presente che sia Gomorra sia i libri di Travaglio sono inchieste documentate, ma c’è sempre una forte tensione letteraria. Gomorra è un romanzo o un reportage? Semplicemente è un romanzo reportage. Ma questo rientra nell’atteggiamento cannibale del romanzo. Si tratta dello stesso discorso che facevamo prima per Tolstoj, per Omero. Quindi niente di nuovo da questo punto di vista. La cosa interessante, in particolare per Saviano, che considero un grandissimo scrittore, è l'abilità, tramite lo sguardo apparentemente oggettivo del reportage, con cui ti dice come fa la camorra a inquinare il territorio, o quanti cinesi vivono dentro un container... In realtà ricostruisce un affresco di mentalità e di storia che tocca l’emotività. Di fatto questa saggistica funziona. Più un reportage che un saggio, è una forma spuria di romanzo. Non è esattamente un manuale di contabilità aziendale, o un saggio di storia puramente cronachistico o accademico, anzi, è molto antiaccademico: mette le mani fino al gomito nella realtà intercettando la pancia, le emozioni della gente.
Quindi in questo momento il mercato sta alle emozioni della gente come la finanza sta all’economia: la finanza si basa su improvvise accensioni emotive, repentini cambi di direzione perché la gente si spaventa o vuole essere confermata nelle sue illusioni. L’economia ci porterebbe invece a guardare le cose nel loro aspetto più freddo e mirato. Spesso in economia devi fare scelte che avranno i loro effetti dopo venti anni. Nella finanza devi fare scelte ogni venti minuti. Il mercato somiglia più alla finanza. Non fa scelte sulla base di un’analisi razionale, ma sulla base dell’emozione. E quindi funzionano moltissimo anche nel campo del non romanzo quegli scrittori che intercettano in maniera forte le emozioni. Saviano è un grandissimo sciamano dell’emotività popolare. Un grande scrittore, ha una pagina fantastica. Infatti lo considero uno scrittore non un saggista. Travaglio è un giornalista di inchiesta, bravissimo scrittore anche lui. Però Saviano ha una marcia in più. L’unica domanda che ci possiamo fare su di lui è “What’s next?”, cosa c’è dopo. I suoi critici gli hanno detto di aver rubato la documentazione, ma lo faceva anche Balzac, che studiava l’economia, la legge, il diritto, le cronache di costume per fare la Comédie Humaine. Gomorra è la Comedie Humaine del nostro tempo malato e marcio.
E il successo della Casta? Rizzo e Stella non hanno la bellezza narrativa e la capacità di prenderti per mano di un Saviano, ma il loro libro è stato un caso editoriale. Come si spiega questo successo?
Quel libro è intervenuto su un problema molto sentito, ma è una casta che parla male di un’altra casta. Facendo un gioco di parole, il successo della casta è un libro che parla di una casta il cui successo è stato costruito all’interno di meccanismi di favoritismo di un’altra casta. Se Gianantonio Stella non fosse quello che è al Corriere della Sera e quel libro fosse stato scritto da uno sfigato qualsiasi, quel prodotto non avrebbe avuto l’enorme favore che ha riscontrato. La Casta coglie come virus opportunista le emozioni, e nel mercato delle emozioni c’è anche molto qualunquismo. Un libro intelligentissimo, nulla da dire, però è la casta dei giornalisti che si autorappresenta come rimedio nei confronti del clima castale che ha invaso la politica. Andrebbe tutto molto bene se io non avessi il dubbio sincero e fondato che anche la casta dei giornalisti ha gli stessi tipi di nepotismo e di mancanza di riferimento alla realtà che purtroppo hanno i politici.
Spesso durante il periodo di Tangentopoli si diceva che la casta della prima repubblica era stata demolita, in realtà è ancora tutta al governo, e immaginare un paese migliore della casta che lo rappresenta è un grave errore. Certo, la casta tende a creare poi degli strumenti propri di irrigidimento e autoperpetuazione, ma come ha dimostrato Tangentopoli, in realtà ci sono strumenti giudiziari, di giudizio politico, di merito, per mandare a casa la gente. Mi si dimostri che all’interno della categoria giornalisti, editori, notai, tassisti, ferrovieri, operai non ci sono gli stessi meccanismi di garanzie e favoritismo di casta che ci sono nella categoria dei politici, e dirò che La Casta è un libro eccellente. Altrimenti è il pur brillante prodotto di un’altra casta. Se la casta dei tassisti fa un libro contro i politici, dirà una quantità di cose assolutamente esatte, ma siamo sicuri che questo renda migliore la casta dei tassisti? Se ne siamo convinti, forse di questo paese abbiamo un’immagine allegramente ottimistica. Io sono un tantino più incline a pensare che la società italiana somiglia a quella indiana, dove le caste sono circa seimila e ciascuna favorisce sé stessa.
Approfondimenti: http://www.castelvecchieditore.com
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