Numero 18
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Il libro val bene un caffè
A Firenze gli appassionati di letteratura si incontrano alle Giubbe rosse, lo storico caffè che nel '900 ha radunato i più importanti movimenti italiani (fra cui il futurismo). Qui Massimo Mori dirige - con felice intuizione - una serie di incontri che avvicinano il mondo di chi scrive al mondo di chi legge. Ne abbiamo parlato con lui...
di Briciolanellatte www.briciolanellatte.splinder.com
Da molti anni Massimo Mori è, tra l’altro, direttore degli ‘Incontri Letterari alle Giubbe Rosse’ a Firenze, forse il più famoso tra i Caffè storico-letterari italiani (è stato il Caffè dei futuristi, degli ermetici e di tutte le più importanti tendenze del ‘900).
Mori è un uomo poliedrico e polivalente, un artista che si mette continuamente in gioco sperimentando di arte, ma è anche un sensibile e arguto poeta oltre a un maestro sapiente nell’antica pratica del Tai Chi Chuan. Ho avuto modo di avvicinarlo accostandomi a quest’ultima disciplina, ma ogni volta che ho creduto di poterlo conoscere bene mi sono prima o poi piacevolmente meravigliato nello scoprire che c’era dell’altro nella sua umanità, qualcosa di più profondo e avvol-gente di cui non mi ero accorto. Mi ha fatto quindi un enorme piacere poterlo intervistare per la rivista, chiedendogli, come osservatore privilegiato all’interno del Caffè alle Giubbe Rosse’ a Firenze, la sua opinione sul suo molteplice impegno e sui fermenti letterari fiorentini
Come è nata l’idea di una collaborazione con il Caffè storico delle Giubbe Rosse in Firenze?
Nell’84 con alcuni amici poeti fondammo ‘OTTOVOLANTE, circuito di produzione di poesia ’. Le attività di quel movimento durarono circa otto anni raggiungendo, con un considerevole numero d’iniziative, un livello internazionale. Le vicende di quell’esperienza e le sue motivazioni sono raccontate in forma storico-critica nel libro ‘Il circuito della poesia’ che ho pubblicato con l’editore Manni nel ’97, ed un’archiviazione completa dei documenti è conservata alla Biblioteca Nazionale Centrale. Tra le iniziative che realizzammo vi furono gli ‘Incontri Letterari alle Giubbe Rosse’ iniziati da Giancarlo Viviani e da me proseguiti, dopo la sua scomparsa nel ’99, fino ad oggi. L’intenzione era di recuperare nella storia del più famoso tra i Caffè storico-letterari italiani (il Caffè dei futuristi, degli ermetici e di tutte le più importanti tendenze del ‘900), gli incontri e gli scontri tra letterati ed artisti.
All’interno del Caffè ti sei ritagliato uno spazio ben definito. Qual è l’idea di fondo in base alla quale selezioni gli incontri letterari?
All’interno del Caffè l’attuale proprietà dei fratelli Smalzi iniziata nel ’91, si è dimostrata, soprattutto nella persona di Fiorenzo, disponibile ed interessata alla promozione d’ una continuativa attività culturale. Così, formalmente, ho assunto da molti anni l’incarico di direttore degli ‘Incontri Letterari alle Giubbe Rosse’. L’impronta che fin dagli inizi abbiamo inteso dare a questa attività nell’antico Caffè, è stata quella di volerne fare un ‘porto franco della letteratura e dell’arte’. Questa intenzione è creativamente testimoniata in un’opera di poesia visuale in rame e alluminio, incorniciata dietro il bancone del bar, che realizzai in quegli anni. Nel periodo del postmoderno e della contaminazione volevamo in tal modo non vincolare le iniziative a specifiche linee di tendenza, ma riverberare invece, fatti salvi criteri di qualità, la pluralità delle voci a confronto. In anni più recenti diverse associazioni, gruppi, consorterie, hanno ritagliato un percorso autonomo di presentazione e proposizione, spesso vicendevolmente ignorandosi e rivendicando un primato nelle attività del locale. Ma non riconosciamo una prevalenza per garantire la pluralità. Mori
Puoi parlarci del tuo concetto di poesia? Quanto il tuo particolare sentire la poetica influisce sull’attività di collaborazione col Caffè?
Questa domanda mi consente di completare il profilo del mio ruolo. Se il locale è aperto alla pluralità delle correnti, dei generi e delle linee di tendenza, è chiaro tuttavia che io stesso abbia operato delle scelte e praticato la poetica che più mi convince e mi forma. In questa direzione solo gli avvenimenti che compaiono con la dizione ‘Incontri Letterari alle Giubbe Rosse a cura di Massimo Mori’ sono sotto la mia diretta scelta critica e responsabilità e corrispondenti quindi alle mie scelte di poetica. Tra questi avvenimenti, che cerco di contenere in non più di due al mese perché è deleterio l’affastellarsi velleitario di miriadi di presentazioni che vengono ormai organizzate in qualunque locale, emerge per rilevanza internazionale il festival di poesia in azione ‘A +Voci’ che sarà, il prossimo marzo, alla decima edizione. La mia visione e formazione è quella che si rifà al concetto di ‘poesia totale’ che, con ascendenti anche più lontani nel tempo, può essere ricondotta ai poeti Adriano Spatola, Corrado Costa, Amelia Rosselli, Antonio Porta, Eugenio Miccini ed altri contemporanei che non sono più tra noi. Dagli anni giovanili, più rivolti alla cosiddetta ‘poesia lineare’, il mio percorso si è poi svolto nei territori della poesia visiva, dell’attività performativa, della poesia in azione, della poesia sonora, della videopoesia ecc.. Con queste attività ho avuto l’opportunità di partecipare a molte tra le più importanti manifestazioni internazionali, recentemente a Marsiglia e prossimamente in Spagna.
Oltre che poeta e artista polivalente sei anche Maestro dell’antica pratica del Tai Chi. Come riesci a coniugare arte e pratica che sembrano concetti così distanti tra loro?
La ‘poesia totale’ che nei nostri giorni si rende manifesta nell’intermedialità e, dal punto di vista teorico, nella ’tradizione del nuovo’ analizzata da Anceschi, ha tra le sue finalità quella di mostrare come concetti apparentemente lontani hanno radici comuni. Superando l’antica differenziazione schizofrenica tra le due culture o tra oriente e occidente la ‘poesia totale’ è la visione olistica scientifica e creativa della visione del mondo, di un rapporto compatibile tra natura e cultura. Compatibilità che viene messa in crisi dai disastri compiuti dall’insipienza umana. All’inizio degli anni sessanta venni contemporaneamente in contatto con ambienti della poesia totale e della pratica del Tai Chi. Una combinazione fortunata e tutt’altro che incompatibile; il Tai Chi è un grande poema gestuale. La pratica e soprattutto l’insegnamento educativo del Tai Chi, nella declinazione dei suoi principi in qualunque attività umana, ha dato alla mia pratica poetica essenzialmente tre contributi determinanti. Il primo è riferibile al perfezionamento di un’esecuzione ed esibizione performativa, il secondo ad una riduzione dell’egocentrismo d’ogni attività artistica rifuggendo le mitologie moderniste del successo e dell’affermazione personale. Questa intervista è filtrata per la stima e la pratica scritturale e del Tai Chi dello stesso intervistatore. Il terzo è che troppo spesso le avanguardie di riferimento nella mia attività creativa, sono state vittime di un’entropia che attraverso le ideologie o le vie di fuga nelle psicodelie, attraverso l’alienazione o facili suggestioni, sono frequentemente finite nella dispersione e nella dissipazione fino all’auto annullamento. Per tornare alla domanda, cerco di praticare l’arte e di rendere la pratica artistica. La critica si è espressa più volte a proposito del mio lavoro creativo e gli ambienti del Tai Chi conoscono invece le caratteristiche del mio insegnamento; tengo accuratamente separate queste due attività perché entrambe devono avere una loro indipendente credibilità ma la radice (e l’obiettivo) sono comuni. Nella storia del ‘900 è conosciuta la vita del maestro di Tai Chi Chen Man Ching che era anche poeta, pittore, medico, calligrafo, così come nota la storia del grande artista Yves Klein che era un noto maestro di Judo. E’ ancora difficile rendere manifesta questa continuità, è un lavoro lungo, delicato e dedicato, lento e difficile, ma chi la coglie ha una visione superiore.
I circoli culturali una volta erano molto attivi, pensiamo ai famosi Caffè parigini. E poi c’erano le librerie, con i loro salotti. E oggi? Che succede?
Molte cose sono cambiate e volere riproporre i salotti culturali e il clima di quei famosi Caffè sarebbe, oltre che perdente, culturalmente sbagliato. E’ cambiata la comunicazione ed i suoi mezzi. E’ l’agorà telematico interattivo che oggi convoglia i confronti e gli scontri. Non a caso il sindacato nazionale scrittori ha scelto come proprio ‘luogo’ la rivista in rete ‘Le reti di dedalus’ ed è nel blog che si incontrano le varie esperienze. Le librerie si sono trasformate in grandi magazzini dell’editoria di consumo. Allora perché reiterare gli incontri in uno storico Caffè? Questi incontri non rappresentano più una frequentazione quotidiana del locale da parte degli intellettuali, ma costituiscono l’opportunità periodica, fuori dal clamore dei media, di una verifica esperienziale diretta con l’autore dove le sue caratteristiche antropologiche si rivelano specchio e matrice delle opere prodotte. La continuazione di queste attività è anche il ribadire nella storia, che non è finita anche se tende a ripetersi in diverse forme, l’intenzione di resistere con la creatività della poesia e dell’arte ad ogni tentativo di omologazione coatta o indotta, di resistere al ‘trend’ dei sistemi della moda.
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