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Numero 5



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Le mani sulla città







Il 26 aprile del 1937, durante la guerra civile di Spagna, Guernica viene rasa al suolo da un attacco aereo.
Il genio di Picasso ne ha fatto un simbolo universale che mescola all'orrore degli eventi una strana bellezza che ancora oggi cattura chi guarda l'opera...

di Stefano Petruccioli
stefano_petruccioli@yhaoo.it


Il 18 luglio 1936 scoppia in Spagna la guerra civile, prova generale della futura guerra mondiale. Il 26 aprile dell’anno successivo, di pomeriggio, Guernica, un’antica città delle province basche, viene completamente distrutta da un attacco aereo tedesco. L’attacco alla città indifesa, ben lontana dal fronte, dura tre quarti d’ora, durante i quali un fitto stormo di aerei lancia ininterrottamente sulla città bombe. Contemporaneamente, aerei da caccia in volo radente aprono il fuoco con le mitragliatrici sugli abitanti che cercano rifugio nei campi. In breve tempo tutta Guernica è in fiamme.
In quel momento Picasso sta lavorando ad una tela per il padiglione spagnolo all’Esposizione universale di Parigi. Ha già scelto, come tema dell’opera da presentare, quello dell’artista nel suo studio, ma le notizie che gli arrivano, che legge sui giornali, di cui vede le fotografie, gli fanno cambiare i suoi progetti: dipingerà il Guernica. 

Il pittore sostiene che non si può non avere interesse per gli altri esseri umani, che la pittura non deve solo decorare appartamenti, ma essere un’arma di offesa e di difesa dal nemico. La schiacciante esperienza della guerra spinge Picasso a cercare temi anche al di fuori di se stesso, dell’immersione nell’interiorità. Già ne Il sogno e la menzogna di Franco, incisione del 1937, Picasso ha esplicitato la sua posizione politica: la serie di grandi lastre, divise in nove parti, simili ad un fumetto, illustra in immagini rabbiosamente satiriche come Franco proceda contro la giustizia, l’umanità e la cultura, ed è accompagnata da un lungo testo poetico, scritto dallo stesso pittore, nel quale si denunciano il terrore e la brutalità della guerra. Le cartoline tratte dalle incisioni sono diffuse e vendute, insieme alla traduzione del testo in inglese e francese, in tutto il mondo. 


Subito dopo il bombardamento di Guernica, terminandola in poche settimane tra il maggio e il giugno, Picasso dipinge un enorme tela delle dimensioni di una parete, 3 metri di altezza per 8 di lunghezza. Precedono la sua realizzazione innumerevoli schizzi e abbozzi, a matita e ad olio, studi preparatori che si susseguono a centinaia.
Le figure che per prime appaiono negli schizzi, dipinti con precipitazione, ira e passione, sono il toro, la donna che illumina la scena e il terribile cavallo ferito, al centro. Poi si aggiungono, collocati sulla sinistra, la madre che, urlando verso il cielo, stringe il figlio morto tra le braccia, moderna Pietà, e il guerriero che impugna la spada spezzata. Infine, le due donne sulla destra, una ferita che tenta di rialzarsi, e una con le mani alzate in cerca d’aiuto, che l’ambiguità della posa non permette di capire se cada o sia consumata dalle fiamme. 

Le prime figure comparse non possono non far pensare alla picassiana Minotauromachia, acquaforte del 1935 che presenta un Minotauro cieco, procedente inerme e tentoni, che viene guidato attraverso il buio da una bambina con una candela; al centro dell’immagine, tra il Minotauro e la bambina, si trova un cavallo spaventato, con le froge dilatate dalla paura, dal cui corpo squarciato escono le interiora, e sul cui corpo pende quello di una torera ferita a morte. Il Minotauro, creatura mitologica con corpo maschile e testa di toro, incarna fin dall’antichità concetti legati all’istintività, alla violenza, all’erotismo. Per il suo rimando all’istinto non governato dalla ragione, la figura del mostro di Creta appare particolarmente consona alla poetica surrealista, volta all’affermazione del potere dell’inconscio.

 Ad esso, infatti, è ispirato il titolo della rivista programmatica Minotaure, apparsa nel 1933; e dal compito, affidato proprio a Picasso, di illustrarne la copertina del primo numero, prende avvio la lunga fascinazione del pittore per la figura del Minotauro. Ad essa Picasso dedica una nutrita serie di opere, a partire dagli anni Trenta, sospese tra una tendenza classicistica e le istanze surrealiste. Le immagini elaborate dall’artista interpretano la figura del Minotauro in una singolare proiezione autobiografica, attraverso la quale Picasso dà vita ad una propria “mitologia personale”: a volte il Minotauro trionfa con furia animalesca e con accenti spesso erotici, a volte partecipa ad uno sfrenato banchetto nello studio dell’artista, oppure accarezza goffamente una bellezza addormentata, altre ancora crolla ferito a morte nell’arena.
Il Minotauro, e la sua mitologia, assumendo sempre maggiore rilievo anche grazie alla loro possibilità di essere figure dall’identificazione variabile – dalle forze sovversive dell’istintualità e della libido al bisogno d’aiuto da parte di una vittima –, compaiono, dunque, anche nel Guernica. 

Quella del toro è una figura ambiguità come quella del Minotauro: nei primi studi, essa è una presenza larga e invadente, minacciosa, una forza bruta di distruzione, mentre nella versione finale dell’opera, l’espressione dell’animale è confusa, e sembra quasi che esso voglia proteggere la madre che piange.
Il cavallo, al centro, si alza su zampe galoppanti. È contorto, agonizzante, al limite del collasso. Ai suoi piedi un guerriero – l’espressione semplice ma terrificante, come l’avrebbe disegnata un bambino – giace caduto: sembra decapitato, una mano ha il palmo ferito, l’altra stringe un’inutile spada rotta e un fiore. Questo fiore è l’unico simbolo di speranza presente sulla tela: nella versione finale del dipinto, Picasso toglie il piccolo pegaso nascente da una ferita del cavallo che ha dipinto in precedenza, evidente simbolo di speranza e rinascita. Ma anche il fiore rappresenta una speranza che, se non è morta, è però assai fragile, visto che il cavallo sembra destinato a schiacciarlo.
La donna che, affacciandosi da una finestra, regge la lampada, illumina e, come lo spettatore, osserva la scena con shock e compassione.
Il tutto inserito in una costruzione delle figure centrale a triangolo, che cita la composizione delle sculture dei frontoni dei templi greci. 

Le grandi dimensioni del dipinto più che mostrare impongono i contenuti allo spettatore. Picasso decide di realizzare l’opera in colori che non si discostano dal bianco, dal nero, dal bruno e dalle sfumature di azzurro, per “depurarla” da inutili abbondanze, evitando ad esempio il ricorso al colore rosso del sangue, e farne risaltare la forza nell’essenzialità. E la forma, la cui frammentazione costituisce un segno caratteristico dell’arte cubista di Picasso, si fa portatrice del motivo della distruzione, della disperazione, della dissoluzione: il dipinto non sarebbe affatto stato più forte, più terrificante, più da incubo, se fosse stato realista; la forma, invece, “raddoppia” il senso della distruzione. La tecnica cubista e la monocromia si adattano perfettamente ad un’opera che vuole denunciare le conseguenze luttuose e distruttive di un evento bellico. 

Ma Picasso non si ferma al Guernica: schizzi e quadri successivi utilizzano motivi tratti dal dipinto del 1937, come se l’opera non avesse ancora esaurito la spinta creativa e d’ispirazione dell’artista. Donna che piange, dell’ottobre dello stesso anno, che si rifà a schizzi preparatori per la madre col bambino, è una sorta di “aggiunta” alla grande tela: situata al centro del quadro, emerge come metafora del dolore la forma spigolosa del fazzoletto, nel quale la donna, nella sua disperazione, affonda i denti della bocca distorta e in cui si raccolgono le lacrime che, sgorgando copiosamente dagli occhi piegati, marcano le gote; la riduzione del colore al contrasto tra bianco e blu rimanda immediatamente al Guernica. Mentre è bloccato nella Parigi occupata dai nazisti, poi, Picasso dipinge, nell’aprile 1942, Natura morta con teschio di bue: un ambiente estremamente spoglio, il tavolo, la finestra che guarda su un’oscurità indefinibile, attirano l’attenzione in misura maggiore sulle ossa scarnificate e sulle profonde cavità del teschio; alludendo all’assenza di modelli consoni per il motivo tradizionale della natura morta, l’opera rappresenta un documento della disperazione del momento di guerra. Con L’ossario, del 1945, infine, si richiama Guernica, attraverso la riduzione del colore e la costruzione centrale a triangolo, per presentare i resoconti trasmessi dai campi di concentramento liberati. 

In tutti questi casi, il martirio delle forme, la loro distruzione, esprime la crudezza dei contenuti.
Pur ingaggiando il terreno della politica, con queste opere Picasso non piega la sua arte a fini esterni: egli riesce a non tradire né la bellezza in favore della denuncia dell’ingiustizia, né la morale in favore della pittura. Egli non edulcora, in nome della bellezza, i massacri e le rovine che vuole rappresentare, e neanche dipinge solo le proprie visioni: l’individualismo dell’artista e l’impegno sociale non rappresentano, in questi dipinti di Picasso, due estremi inconciliabili. Così si inaugura un rapporto in precedenza inedito tra arte e politica: il potere rivoluzionario di Guernica non sta nel rappresentare le distruzioni operate dalla guerra di Spagna, ma nel farlo producendo all’interno dell’opera stessa una rivoluzione formale, una distruzione sistematica del procedimento figurativo che rappresenta essa stessa il senso di una rivolta e la denuncia di un massacro. 

L’Impegno dell’arte non si realizzano attraverso i buoni sentimenti che spesso, nel tentativo di commuovere, inclinano all’accademismo, non attraverso un realismo sociale; non si tratta di far entrare a forza l’idea di un determinato messaggio nella pittura, ma, al contrario, di lasciarsi andare alla pittura, in ciò che essa ha di più esplosivo, di affidarsi all’arte stessa, interrogandola dal suo interno. È per questo che le opere di Picasso sono, insieme, rivolta, commemorazione di un massacro, e ricerca della bellezza. La bellezza formale – perché, alla fine, la composizione del Guernica è nel complesso stranamente bella – non tradisce, ma aiuta l’accusa aperta agli orrori della guerra. Bellezza e morale stanno, per una volta, dalla stessa parte.